Se il collirio vi finisce sempre sulle guance, non è colpa vostra

Le aziende farmaceutiche inondano i nostri occhi con dosi superiori al necessario, racconta un'inchiesta di ProPublica

(Will Russell/Getty Images)
(Will Russell/Getty Images)

Mettersi il collirio non è semplice, tra fare centro alla prima goccia e vincere l’idea di farsi cadere qualcosa direttamente in un occhio, ma molte case farmaceutiche rendono le cose ancora più complicate. In una recente inchiesta, ProPublica ha spiegato come buona parte degli applicatori sulle boccette del collirio producano gocce molto più grandi del necessario, che quindi inevitabilmente non possono essere raccolte per intero in un occhio e vanno in parte perse, come (ehm) lacrime nella pioggia. Fatte le dovute proporzioni, è come se ogni volta che si prende una pillola se ne buttasse una seconda nel cestino. Il fenomeno è così diffuso da far ipotizzare che in alcuni casi sia voluto, per far durare meno una confezione di collirio e aumentare i profitti, ma come vedremo le cose sono più complicate.

Gocce e sprechi
In commercio esistono svariate tipologie di collirio, da quelli da banco per ridurre le irritazioni degli occhi ai colliri per contrastare condizioni pericolose come i glaucomi. Questi ultimi sono piuttosto costosi e se finiscono rapidamente, a causa delle gocce troppo grandi, diventano una spesa difficile da sostenere per i singoli o per la collettività, a seconda dei sistemi sanitari dei vari paesi o dei regimi assicurativi. Il problema degli sprechi nel settore sanitario è diffuso e ha numerose responsabilità, che naturalmente non riguardano solamente i produttori di farmaci (che investono enormi quantità di denaro per sperimentare nuovi principi attivi e farli approvare). Nonostante il lavoro delle autorità sanitarie, la tendenza a indurre o costringere i pazienti ad acquistare più medicinali continua a esistere e spesso passa per strategie commerciali opinabili, come l’indicazione di date di scadenza decise in modo arbitrario e al solo scopo di dichiarare un farmaco scaduto anzitempo, in modo da farne acquistare una nuova confezione.

ProPublica scrive che il fenomeno interessa soprattutto i farmaci venduti in forma liquida, come i colliri o i medicinali utilizzati per le terapie contro il cancro. Un’infusione di un chemioterapico può costare migliaia di euro, un collirio di nuova generazione per il glaucoma diverse centinaia e una boccetta dura in media un mese, nonostante il suo contenuto dovrebbe offrire un maggior numero di applicazioni. Solo per i colliri contro il glaucoma, negli Stati Uniti lo scorso anno le aziende farmaceutiche hanno prodotto ricavi intorno ai 3,4 miliardi di dollari.

Microgocce
Il paradosso è che per anni le stesse aziende hanno finanziato e prodotto ricerche su soluzioni per ridurre gli sprechi nella somministrazione di colliri e chemioterapici. Nei primi anni Novanta uno dei più grandi produttori di colliri al mondo, Alcon Laboratories, sviluppò una “microgoccia” ottenuta con un applicatore che permetteva di far cadere nell’occhio una dose adeguata di collirio, riducendo gli sprechi. L’innovazione non ebbe però seguito, un indicatore di come interessi economici e di altro tipo possano scavalcare le necessità dei pazienti.

All’epoca i ricercatori furono interpellati da Alcon per capire come mai alcuni pazienti segnalassero di percepire bruciore e fastidio quando applicavano i colliri: si capì presto che la causa erano le gocce troppo grandi, il doppio rispetto a quanto può trattenere un occhio con un’applicazione. La piccola inondazione comporta ancora oggi che il collirio esca dall’occhio o che sia drenato nei dotti in prossimità del naso.

I ricercatori provarono allora a ridurre il volume dai 50 microlitri prodotti da molti applicatori a 16 microlitri. La goccia più piccola fu sperimentata su 29 pazienti affetti da glaucoma ottenendo risultati positivi: la riduzione della pressione interna dell’occhio era uguale a quella ottenuta con gocce più grandi, e i casi di sensazione di bruciore e fastidio erano diminuiti. Nel complesso, la maggior parte dei pazienti disse di preferire le microgocce a quelle classiche. I risultati della ricerca furono pubblicati nel 1992 sull’American Journal of Ophthalmology, ma Alcon non mise sul mercato il nuovo applicatore temendo una riduzione dei ricavi.

Un ex dirigente ha spiegato che i timori di Alcon erano soprattutto legati alla concorrenza molto agguerrita nel settore. Basta un esempio per farsi un’idea: Alcon vendeva un collirio avvolto in un foglio di alluminio che permetteva di ridurne l’evaporazione, facendo aumentare la durata del prodotto. Un’azienda concorrente mise in giro la voce che la protezione servisse per evitare che le boccette producessero gas tossici, e alla fine Alcon rinunciò alla protezione. Nel caso delle microgocce, non era chiaro come avrebbero reagito i concorrenti né se l’innovazione avrebbe potuto influire negativamente sulle vendite. Alcon vendeva diversi altri colliri per i quali non erano state eseguite ricerche con le microgocce: avrebbe quindi dovuto vendere un collirio con un tipo di applicatore e gli altri con sistemi diversi, cosa che avrebbe potuto influire sulla percezione della sicurezza del suo collirio contro il glaucoma da parte dei clienti. Un nuovo sistema con gocce più piccole avrebbe inoltre richiesto una nuova approvazione da parte delle autorità sanitarie statunitensi, quindi alla fine il progetto fu abbandonato.

Alcon è ora di proprietà di Novartis, una delle più grandi e importanti aziende farmaceutiche al mondo, che investe ogni anno svariati miliardi di euro per la ricerca di nuovi medicinali (la prima e promettente terapia genica contro la leucemia approvata negli Stati Uniti è sua). L’azienda è stata interpellata da ProPublica ma ha preferito non commentare la storia delle microgocce, chiarendo che comunque le attuali dimensioni delle gocce del collirio comprendono un “margine di sicurezza” per assicurarsi che con un’applicazione ogni paziente riceva una dose adeguata del farmaco.

Una soluzione che evitano tutti
Negli oltre 20 anni passati dalla ricerca sulle microgocce, le cose non sono cambiate molto, anche perché in molti paesi le autorità sanitarie regolamentano i farmaci per la loro sicurezza ed efficacia, non i potenziali sprechi. Altre ricerche scientifiche hanno dimostrato che dosi molto più piccole, in alcuni casi 15 microlitri, sono efficaci quanto quelle più grandi. Uno studio pubblicato nel maggio scorso è arrivato a conclusioni simili, segnalando che buona parte della goccia di collirio viene persa durante un’applicazione: anche se si fa subito centro, scivola via dall’occhio perché ce n’è troppa.

ProPublica ha studiato i documenti emersi nell’ambito di diverse cause legali sui colliri. In molti ci sono riferimenti diretti alle dimensioni delle gocce e ammissioni sul fatto che sono più grandi rispetto alla capacità dell’occhio. In un documento di Pfizer, per esempio, si dice che: “La dimensione della goccia non costituisce un problema di dosaggio perché l’occhio umano può al massimo accogliere 7 microlitri di fluido”. Durante una deposizione in un processo, un ricercatore di Allergan ha ammesso che la sua azienda ha condotto ricerche su gocce da 5, 10, 15, 20 e 30 microlitri senza trovare differenze statisticamente rilevanti nella capacità delle gocce di ridurre la pressione dell’occhio, nei casi di pazienti trattati per il glaucoma.

Nessuna azienda ha spiegato perché non abbia messo in commercio applicatori per gocce più piccole, ma esperti ed economisti dubitano comunque che le microgocce porterebbero a qualche beneficio economico contro gli sprechi. Magari per un primo periodo i prezzi sarebbero più bassi, ma le aziende si adeguerebbero rapidamente riportandoli ai prezzi di quando vendevano in proporzione più prodotto. Del resto i flaconi sono venduti per durare un mese, quindi sarebbero meno capienti e ugualmente costosi. Ci sarebbero comunque meno sprechi nella loro produzione e meno pazienti avrebbero problemi ad applicare il collirio.

Il caso dei farmaci contro i tumori
Nel caso dei chemioterapici un processo di questo tipo si è già verificato. Una decina di anni fa, l’azienda di biotecnologie Genentech sviluppò l’Herceptin (Trastuzumab) per trattare il tumore al seno. Era distribuito in flaconi per più pazienti in modo da ridurne gli sprechi, un aspetto non trascurabile contando il costo di 9 dollari al milligrammo (3mila dollari per un’infusione). L’Herceptin è uno dei farmaci di maggiore successo nel trattamento del carcinoma mammario avanzato e solo negli Stati Uniti le vendite hanno prodotto ricavi per 2,5 miliardi di dollari lo scorso anno. A maggio Genentech ha annunciato il ritiro dei flaconi da 440 milligrammi, con l’intenzione di sostituirli con fiale più piccole e monodose da 150 milligrammi. Il problema è che la dose non è uguale per tutti, ma varia a seconda della paziente e del suo peso, quindi in alcuni casi una fiala non è sufficiente e si rende necessario l’uso parziale di una seconda fiala, con lo scarto di ciò che avanza.

Lorraine Holzapfel del Marin Cancer Center in California ha fatto qualche calcolo, mettendo a confronto i costi affrontati dalla sua struttura per trattare 37 pazienti con l’Herceptin con i flaconi da 440 milligrammi e con le fiale da 150 milligrammi. In media una paziente nei primi 5 mesi dell’anno ha avuto bisogno di un’infusione da 340 milligrammi, rendendo quindi necessarie tre confezioni da 150 milligrammi e con uno scarto di 110 milligrammi per ogni trattamento. A conti fatti, si perdono l’equivalente di 1.000 dollari ogni infusione, una cifra che alla fine si riflette sul paziente (per via diretta o indiretta a seconda dell’assicurazione e di altre variabili). Un ciclo completo con Herceptin può quindi arrivare a costare 10mila dollari di farmaco sprecato. Se si moltiplicano dati di questo tipo su tutti gli Stati Uniti si arriva a oltre 400 milioni di dollari buttati in Herceptin non utilizzata in un anno.