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  • Domenica 13 agosto 2017

Il viaggio delle banane di New York

Arrivano nei container dal Sudamerica quando sono ancora verdissime e poi finiscono ovunque: in mezzo succedono molte cose

(Ronaldo Schemidt/AFP/Getty Images)
(Ronaldo Schemidt/AFP/Getty Images)

Secondo i dati di un rapporto del 2013 della FAO (l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) il paese che esportava – e probabilmente ancora esporta – più banane era l’Ecuador. La maggior parte di quelle esportate al mondo finiscono invece negli Stati Uniti. In un recente articolo del New York Times, Annie Correal ha scritto che ogni settimana arrivano circa 20 milioni di banane soltanto a New York. Correal ha raccontato tutto quello che succede dal momento in cui le banane arrivano a New York via mare, soprattutto dall’Ecuador, a quello in cui finiscono nei negozi che le vendono, e nelle case di chi le mangia. Ci sono controlli per le radiazioni, gas che fanno maturare le banane e timori su un futuro poco promettente, dovuto a una malattia che già anni fa creò grossi problemi nel mondo delle banane.

L’articolo di Correal inizia dal momento in cui la Herman Hesse, una nave container, dopo aver percorso circa tremila chilometri dall’Ecuador, passando dai Caraibi e dal canale di Panama, arriva al Red Hook Container Terminal di Brooklyn, la parte di New York a sud-est di Manhattan. La Herman Hesse è lunga più di 160 metri e nei suoi 40 container ci sono circa quattro milioni di banane. Correal ha scritto che le banane arrivano «che sono ancora verdi, non giallo-taxi, e che sono dure come martelli». Da quel momento inizia il lungo procedimento che le fa maturare e finire nei negozi: altrove negli Stati Uniti, e nel mondo, è un processo gestito da grandi società di distribuzione. A New York è invece ancora una cosa spesso a gestione familiare. Il primo a occuparsi di distribuzione di banane a New York fu tra l’altro un italiano: Antonio Cuneo, che nel Diciannovesimo secolo finì per avere un monopolio ed essere chiamato il Re delle Banane.
Nel Diciottesimo secolo le banane erano diffusissime a New York, ed è lì che è nata la storia delle bucce su cui si scivola, poi diffusa anche dai primi spettacoli di Vaudeville e dai film muti, che ne sfruttarono l’immediato effetto comico. Era un problema serio, però: Correal cita per esempio un articolo del New York Times del 1896, intitolato “Guerra alle bucce di banana“, e parla anche della storia di una donna che nel 1910 fu arrestata perché si scoprì che aveva detto in 17 diverse occasioni di essere scivolata su una buccia di banana, per farsi risarcire in qualche modo.

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Se c’erano così tante bucce era perché giravano tante banane: piacevano, si conservavano bene e non costavano tanto. Dopo la morte di Cuneo il mercato si aprì e, ha scritto Correal, «oggi piccole attività a conduzione familiare guadagnano un dollaro a cassa per portare le banane nei supermercati, negli ospedali, negli aeroporti e nel più sperduto dei negozietti».

Persino il Red Hook Container Terminal è a gestione familiare e a occuparsene è Michael Stamatis. Un tempo era più grande, ha spiegato Stamatis, ma ora le grandi società – per esempio Chiquita – fanno arrivare le loro banane in porti più lontani dalla città. Al Red Hook Container Terminal arrivano banane con nomi meno noti: Belinda, Bonita, Selvatica.

Correal ha scritto che dopo l’arrivo della Herman Hesse i container di banane vengono scaricati e fatti passare attraverso degli RPM (acronimo di Radiation Portal Monitor): sono due barre orizzontali messe ai lati di una strada, che misurano la radioattività di quello che ci passa in mezzo. Stamatis ha detto che bisogna farlo perché le banane contengono molto potassio, che è radioattivo. Capita anche che alcuni container vengano ispezionati dal United States Customs and Border Protection, l’ufficio della polizia di frontiera. Ora è tutto piuttosto pulito e automatizzato, ma Stamatis ha detto che qualche decennio fa le banane arrivavano in casse piene di «ragni, serpenti, grilli e scarafaggi» e che ai vecchi tempi gli capitava anche di trovare immigrati clandestini che si erano nascosti nelle casse: «Quando le aprivi, correvano via. Ci è capitato più di una volta di doverli inseguire per il molo».

Dopo essere stati scaricati e controllati, quasi tutti i container di banana finiscono in un deposito di North Bergen, nel New Jersey, dove vengono fatte maturare. Anche qui, gestione familiare: se ne occupano Emil Serafino e suo figlio Anthony Serafino. Hanno spiegato che le banane vanno scaricate in fretta, soprattutto quando fa caldo, e portate al chiuso. Correal ha scritto che «sui banani, le banane ci mettono settimane a maturare. Quelle destinate all’esportazione sono quindi prese quando sono ancora tutte verdi, così che il frutto non si rovini durante il viaggio». Correal ha anche scritto che prima di vedere i posti in cui le banane maturano si aspettava «locali caldi, con soffuse luci arancioni, per ricreare il sole del Sudamerica». Sono invece stanze buie e fredde: «Dei garage, più che delle cabine abbronzanti».

Dietro però c’è molta tecnologia: ci sono dei termometri per misurare la temperatura interna delle banane e nelle stanze viene rilasciato etilene, «la versione sintetica dell’ormone che in natura fa partire la maturazione». L’etilene viene rilasciato sotto forma di gas: si usa da decenni ma bisogna starci attenti, perché è combustibile. Nel 1936 un edificio della Pittsburgh Banana Company esplose, facendo piovere banane in un quartiere della città. Serafino ha detto che oggi tutto è molto più sicuro e comodo: ci sono dei touch-screen e «se le vendite vanno bene, aumentiamo la temperatura; se vanno male la diminuiamo», per far maturare le banane più lentamente. In generale le banane sono sempre tenute a una temperatura tra i 13 e i 18 gradi centigradi. Di solito le banane restano nei “garage” per quattro giorni, poi vengono distribuite in giro per New York. Serafino ha anche detto che c’è un semplice grafico usato per capirsi, quando si parla di livello di maturazione delle banane: «Quando ho dei 7, non ci dormo», ha aggiunto. È però anche un po’ questione di gusti: Emil Serafino, che ha 61 anni, ha detto che gli piacciono “tutte gialle”. Suo figlio Anthony, 25 anni, ha detto che preferisce la “banana Millennial”: «Gialla con il gambo verde».

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Anche quando si tratta di portare le banane da magazzini come quello dei Serafino a chi poi le mangerà, a New York ci sono soprattutto attività a conduzione familiare: una si chiama Top Banana ed è gestita da Joe Palumbo. Ha detto che vende banane a tutti: «Dalla drogheria dietro l’angolo agli ipermercati Costco [una grande catena americana]». Anche ai baracchini che vendono frutta per strada. Dogan Ferahoglu, che si guadagna da vivere grazie uno di questi, ha detto che le banane sono il prodotto più venduto, seguite da mirtilli e fragole.

Palumbo ha però detto che ormai sempre meno famiglie vendono banane e quasi nessuno ormai vende solo banane. La cosa ha a che fare con la genetica e la storia delle banane: a inizio Novecento, ai tempi di Cuneo, il “Re delle Banane”, c’erano tante varietà del frutto, per esempio quelle nane o quelle rosse, provenienti da Cuba. La United Fruit Company, che ora si chiama Chiquita, decise però di mettersi a vendere un solo tipo di banane: le Gros Michel. Le scelse perché crescevano bene, erano resistenti e anche sufficientemente dolci e cremose. Le Gros Michel però a un certo punto si presero un fungo che provocava la cosiddetta “malattia di Panama”, che portò quasi alla loro estinzione e alla loro sostituzione con una nuova varietà: le Cavendish. Se oggi comprate e mangiate una banana e non siete in un paesino dell’India, delle Filippine o del Sudamerica, è quasi sicuramente una Cavendish.

Le Cavendish erano meno resistenti e forse anche meno buone delle Gros Michel, ma furono scelte perché resistevano alla malattia di Panama: qualcuno le chiama le “banane da McDonald’s”, in India le chiamano le “banane da hotel”. Il problema è che da qualche anno anche le Cavendish stanno iniziando a prendere un nuovo ceppo della malattia di Panama. Il problema ancora più grande è che da decenni i nuovi banani vengono fatti tagliando vecchi banani e mettendoli nel terreno: geneticamente, quindi, le nuove banane sono quindi identiche a quelle vecchie, ed è molto più facile che possano prendere tutte la stessa malattia. Qualcuno, nel mondo delle banane, crede che sia una cosa passeggera; qualcun altro è molto preoccupato, e sta per questo iniziando a vendere anche altro.