Quelli che li aiutano per davvero, a casa loro

Tre storie di famiglie italiane che hanno deciso di accogliere un rifugiato in casa, con soddisfazioni e fatiche, e di un'associazione che li aiuta

di Luca Misculin – @lmisculin

A nessuno piace ammettere di avere degli amici un po’ razzisti, o di vivere in un posto ostile agli stranieri: soprattutto se sei una coppia che accetta di ospitare in casa per alcuni mesi un giovane rifugiato, come quelle che sono coinvolte nel progetto dell’associazione Refugees Welcome, nata in Germania nel 2014 e da due anni attiva anche qui col nome di Refugees Welcome Italia. Tutte le famiglie coinvolte hanno un aneddoto di preoccupazione o diffidenza iniziale riguardo la loro decisione: una zia che chiede se hanno intenzione di lavare i vestiti del ragazzo insieme a quelli di tutti gli altri, un amico di famiglia perplesso sul dargli le chiavi di casa, o la bibliotecaria di paese restìa a concedere la tessera per prendere in prestito i libri. E queste sono solamente le fatiche che emergono in superficie.

Mesi dopo le coppie ospiti raccontano queste cose ridendo e minimizzando, ma si capisce che la loro decisione ha avuto delle conseguenze non semplici da gestire. Alcune di loro, nelle scorse settimane, hanno accettato di parlarne con il Post. Non sono le esperienze che sono andate meglio o quelle che sono andate peggio, né sono esemplari di tutte le altre: le ha proposte Refugees Welcome, ritenendo che ciascuna possa avere degli elementi di interesse, e il Post le ha indagate e raccontate.

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Tranne in un caso, le foto in questo articolo non mostrano le persone intervistate, ma altre coppie coinvolte nel progetto.

L’accordo che le famiglie stringono con Refugees Welcome è su base volontaria: non c’è nessuno scambio di soldi o rimborso o sussidio, né da parte loro né da parte dello Stato. La coppia accetta di ospitare una persona – solitamente un ragazzo giovane e disposto a integrarsi, segnalato da varie ong con cui sono in contatto – per un periodo minimo di cinque mesi, garantendogli una stanza, i pasti e un certo grado di fiducia e sostegno. L’associazione si occupa di tutto il resto: selezionare il rifugiato, occuparsi della parte burocratica e della mediazione fra ospiti e famiglie. «Non c’è bisogno di nessun passaggio burocratico: noi comunque facciamo firmare alla famiglia e ai rifugiati un patto che non ha valore legale in cui si stabiliscono le regole della convivenza», racconta Sara Consolato, una dei soci fondatori di Refugees Welcome (che non è l’unica organizzazione a fare questo lavoro, ma una delle più note in Italia). Sta alla coppia e all’ospite decidere come regolarsi con la vita quotidiana, e infine se e come proseguire il rapporto dopo i primi mesi iniziali. Come spiegano anche quelli di Refugees Welcome, non esiste un unico modello buono per tutte le famiglie.

Cristina Bottazzi e suo marito Luca hanno una tabaccheria vicino Venezia: vivono in una bella villetta non lontano dalla stazione di Mestre, piena di gatti, di piante e di luce. Dopo aver visto un servizio delle Iene su Refugees Welcome, hanno deciso di contattare l’associazione e rendersi disponibili. Da qualche mese ospitano Mohamed – che però tutti chiamano col suo cognome, Caba, perché più riconoscibile – che ha 19 anni e arriva dalla Costa d’Avorio. Lo trattano come un figlio. Bottazzi racconta che il giorno in cui è arrivato «eravamo tutti molto agitati»: la preoccupazione della coppia era soprattutto «proteggerlo, fargli conoscere dove abita, cercare di farlo sentire a casa». Lei stessa ammette che ai primi tempi «era come avere un bambino piccolo, di nuovo». Forse anche qualcosa di più: «Non l’ho mai provato con le mie figlie, ma sentivo di volerlo proteggere, e avevo paura che lo ferissero».

Caba e la famiglia di Bottazzi, che hanno altre figlie, si erano conosciuti qualche settimana prima davanti a una pizza. Il ghiaccio si era rotto quando Bottazzi aveva ordinato per Caba una pizza al salame, che però non può mangiare perché è musulmano. Da allora è stato tutto un po’ in discesa: Caba è stato accompagnato praticamente per mano in tutte le fasi del suo inserimento a Venezia. In comune, per farsi dare la carta di identità, in biblioteca, dal dentista, in giro per le scuole a capire quale fosse la più adatta per lui.

Caba vuole fare il meccanico, ma quest’anno non è riuscito ad andare a scuola. «Purtroppo il corso che aveva scelto non è partito», racconta Bottazzi. «Era un buonissimo corso ma ci volevano almeno 17 iscritti. Però ci riproviamo». Nel frattempo ha trovato un lavoro, dato che nessuno in famiglia sta con le mani in mano. A Venezia, lavora come aiuto cuoco/cameriere/commesso di un negozio che vende pasta fresca. Il proprietario gli ha già fatto i complimenti per la sua precisione un po’ maniacale, raccontano tutti ridendo.

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Barbara Cei e suo marito Marco vivono in un tranquillo quartiere a pochi minuti di auto dalla stazione centrale di Verona. La sala del loro appartamento è piena di libri, riviste, quaderni: lei lavora in una cooperativa, lui è un piccolo imprenditore. Hanno saputo di Refugees Welcome da Internet, e da tempo cercavano il modo per fare volontariato nell’ambito della migrazione senza legarsi all’associazionismo cattolico, che a Verona è molto diffuso: «Non siamo molto ricchi», spiega Marco, «invece un posto qui ce l’abbiamo». Per molto tempo hanno avuto un ragazzo in affido che per loro è come un figlio, e la sua stanza era rimasta vuota (mettere a disposizione una stanza privata è una delle condizioni richieste da Refugees Welcome). Davanti a una tazza di caffè, raccontano che Rashid – che ha 20 anni ed è arrivato dal Ghana – ha avuto le idee chiare sin da subito: sarebbe rimasto solo sei mesi, il necessario per mettere qualche soldo da parte e trovarsi un posto per stare da solo.

Rashid è un ragazzo solitario, taciturno e abbastanza religioso. Balbetta leggermente, e ha un sorriso gentile. In questi mesi ha frequentato alcune scuole e di recente ha trovato lavoro come lavapiatti in un locale. Si sente ancora con la sua famiglia di origine. La sua giornata è abbastanza scandita: lavora sia a pranzo sia a cena, e per il resto del tempo rimane nella sua stanza a pregare o a sentirsi con i parenti e gli amici su Internet. Cei e suo marito hanno provato a convincerlo a rimanere ancora un po’ dopo la scadenza naturale del progetto – anche perché l’impiego che ha trovato non è molto stabile – ma Rashid ha deciso che se ne andrà comunque. «Io mi sto preparando per andare via», spiega. «Noi migranti siamo tantissimi, loro possono ospitare alcuni [solo] per un po’».

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(Barbara, Marco e Rashid)

Severina Mozzon e suo marito Maurizio hanno una casa che si sviluppa in verticale in un paese nella periferia sud di Milano, in mezzo ai campi. Sono una famiglia numerosa e già abituata a ospitare ragazzi giovani: da anni partecipano al progetto di scambio scolastico Intercultura, e in alcuni momenti in casa sono stati anche una dozzina. Avendo una certa esperienza con gli stranieri, hanno contattato Refugees Welcome e messo a disposizione una camera della loro casa. Da qualche tempo ospitano Lamine, originario della Guinea e arrivato a Lampedusa su un barcone nel 2014.

Una delle prime cose che i Mozzon si sono chiesti é: «Quindi che fa questo ragazzo?». Lamine è molto impegnato: è iscritto a una scuola professionale per operatore socio-assistenziale che frequenta sabato e domenica, mentre in settimana lavora con una cooperativa che fa pulizie. «Gli devi dare le gambe», ha spiegato Maurizio: «Lui è arrivato con un livello di italiano medio-basso. Lui è arrivato a Lampedusa nel luglio del 2014, venne spostato dopo due giorni a San Donato ma in questa comunità c’erano solo ragazzi italiani: fondamentalmente, non parlava italiano mai». Oggi parla un italiano molto buono: lo dimostra davanti a un piatto di pasta che si scalda verso le dieci di sera (sono i giorni del Ramadan, in cui i musulmani possono mangiare solo dopo il tramonto del sole). I numerosi altri figli dei Mozzon gli parlano e lo prendono in giro come se fosse uno di loro.

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Come ogni convivenza, anche quelle di Refugees Welcome sono segnate da piccole e grandi fatiche. La modalità con cui vengono affrontate è più simile a quella dei “panni sporchi” rispetto a un fastidio vero: c’è un problema, se ne parla, capiamo come risolverlo. Come in una famiglia.

Le piccole fatiche di solito hanno a che fare con problemi ambientali. La famiglia Bottazzi, per esempio, ha dovuto combattere una certa ostilità di chi gli stava intorno. Il primo giorno in cui è arrivato Caba, i Bottazzi lo hanno portato in comune per richiedere la carta d’identità. Caba ha un permesso di tipo umanitario, una forma di protezione internazionale che dà diritto agli stessi benefici riservati ai cittadini dello Stato ospite. Eppure in comune nessuno sembrava disposto a fargliela, come racconta la figlia maggiore dei Bottazzi: «All’inizio gli chiedevano il passaporto. Poi il titolo di viaggio. Dicevano che il permesso di soggiorno non è un documento: io all’università ho studiato che un documento deve avere la data di scadenza, un numero, dev’essere fatto da un pubblico ufficiale, la foto: niente. Siamo andati dalla polizia: anche loro ci chiedevano il passaporto». Dopo una discussione e qualche telefonata, un’impiegata si convinse e avviò le pratiche per la carta d’identità. La bibliotecaria invece fu irremovibile: niente residenza, niente tessera della biblioteca.

Ci sono stati altri piccoli episodi un po’ sgradevoli. Una volta Caba stava passeggiando con uno dei cani della famiglia, e una donna l’ha fermato per chiedergli se il cane fosse suo, se aveva un lavoro, e se sì, quanto guadagnava. Un’altra volta non lo hanno fatto entrare in un pub del paese, senza dare troppe giustificazioni. Sono racconti abbastanza comuni e familiari per chi si occupa di accoglienza di migranti e rifugiati, ma per una famiglia che non ha mai avuto esperienze di questo tipo possono essere un po’ spiazzanti.

Altre volte le fatiche sono più profonde, e riguardano per esempio il rapporto ambiguo che rimane con la famiglia di origine degli ospiti. I Mozzon raccontano che a un certo punto Lamine è venuto da loro e gli ha detto che a breve si sarebbe sposato. La loro risposta è stata: «In che senso ti sposi?».

Una settimana prima che parlassero col Post, Lamine li ha avvisati che la sua famiglia di origine aveva celebrato una specie di matrimonio in contumacia con una ragazza della Guinea. Il matrimonio è stato organizzato dalla mamma e dallo zio di Lamine, le persone più importanti della sua famiglia di origine. Lamine ha accettato di buon grado: descrive la ragazza in questione come la sua “fidanzata” – anche se non è chiaro se l’abbia mai vista – e ha parlato più volte ai Mozzon della possibilità di farla venire in Italia. I Mozzon però se la sono presa parecchio: spiegano che Lamine ha un po’ “forzato la mano” nei loro confronti, e che probabilmente l’avrebbero anche aiutato e sostenuto se solo avesse condiviso con loro questa decisione. Ora si è aperto una specie di «negoziato», come lo chiama Severina: la questione è rimasta un po’ in sospeso, ma parlandone stanno cercando di trovare un compromesso che vada bene a tutti.

«Il suo mondo è molto diverso dal nostro», spiega Marco parlando di Rashid. Lui e sua moglie Barbara hanno spinto più volte Rashid a esplorare il quartiere e la città, gli hanno insegnato come scorrere gli annunci di lavoro, e più in generale lo spronano a sfruttare il più possibile le disponibilità che gli stanno offrendo. «C’è stato un momento in cui non ci capivamo», spiega Barbara: «Lui è un fatalista, Dio sa, Dio deciderà… Noi siamo degli occidentali, siamo dei pragmatici». La sensibilità religiosa di Rashid, che gli è stata trasmessa da suo padre sin da bambino, è stata una delle sfide più grandi per i Cei. Temono che Rashid si affidi eccessivamente all’equivalente musulmano della Provvidenza cristiana: la convinzione che in qualche modo Dio – Allah, in questo caso – provvederà ai bisogni di tutti coloro che seguono i suoi precetti.

«Noi vediamo forse più fortemente di Rashid l’intento più ampio del progetto, che non ha a che vedere con noi tre ma con tutti gli altri che verranno dopo di lui», spiega Marco. «Per inserirsi bisogna fare una serie di cose: perché questo ragazzo non le fa?», aggiunge Barbara. Entrambi ne hanno parlato più volte con Rashid, anche per cercare di rassicurarlo sul fatto che queste discussioni avvengono per il suo bene, e che la loro ospitalità non sarà mai in discussione. «Da quando ci siamo parlati, le cose sono andate meglio», dice Barbara.

Più in sottofondo, come se fosse un ronzio, riemerge a volte il trauma del viaggio in nave e dell’esperienza in comunità una volta arrivati in Italia. I Bottazzi raccontano che nei primi mesi Caba soffriva spesso di incubi, e che non mangia mai i pomodori perché per un anno e mezzo nel centro di accoglienza dove era stato assegnato mangiava solo quelli insieme a un po’ di riso. Ancora oggi gli capita di raccontare con un certo distacco che si decise ad andare via dalla Libia perché la moschea che frequentava era stata bombardata durante una preghiera a cui stava partecipando. Anche i Mozzon raccontano invece con un certo stupore della «freddezza» che dimostra Lamine quando racconta episodi della sua vita precedente in Africa e del viaggio per arrivare in Italia.

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Per ora l’esperimento di Refugees Welcome è limitato a 40 convivenze, fra quelle attive e quelle concluse: sia perché l’associazione è nata da poco – anche se conta già una decina di membri – sia perché «è un numero gestibile per le persone che siamo e le risorse che abbiamo», spiega Sara Consolato. L’attività di Refugees Welcome non si ferma infatti alla formazione delle coppie: da poco ha avviato dei corsi per le famiglie che hanno dato la propria disponibilità, e dopo l’inizio di ciascuna convivenza si impegna eventualmente fare da mediatore per risolvere eventuali problemi. Chiunque può candidarsi per diventare una famiglia ospitante: per cominciare basta compilare un modulo online.

Finora tutte le convivenze sono andate a buon fine, tranne un paio in cui secondo Consolato ci sono stati dei problemi di «incompatibilità». Sono numeri piccoli, ma sono qualcosa: Caba, Rashid e Lamine sono scappati dal loro paese lasciando la famiglia, hanno attraversato il Sahara e sono arrivati in Italia via mare. Qui hanno trovato delle persone che gli vogliono bene e che hanno dato una nuova direzione alla loro vita: è poco, ma è qualcosa.