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  • Martedì 4 luglio 2017

I “ritiri” del calcio non sono più come una volta

Non si sta più in isolamento, non si fanno le corse nei boschi né i "gradoni": sappiamo che ci sono modi migliori per allenarsi, ma qualcosa di quel mondo si è perso

Nils Liedholm durante un allenamento nel 1958, in Svezia (La Presse)
Nils Liedholm durante un allenamento nel 1958, in Svezia (La Presse)

Sulla Repubblica di lunedì Enrico Sisti ha raccontato come sono cambiati i “ritiri” delle squadre di calcio, cioè quelle settimane che ogni estate i giocatori passano insieme chiusi da qualche parte – quindi senza tornare a casa a fine giornata – ad allenarsi intensamente per la nuova stagione: da esperienze di isolamento quasi monacale e sedute massacranti sono diventate terreno di nuove invenzioni di marketing e tournée in posti sempre più lontani.

L’ultimo romantico è Zdenek Zeman. Condannato dal suo karma a indicare sempre una strada, il boemo è l’unico che abbia ancora la forza di prendersi una cotta per una scalinata. I 628 gradini che uniscono la parte bassa di Rivisondoli al suo centro storico daranno senso e valore al ritiro estivo del suo Pescara. Per decidere gli è bastato immaginare i suoi inerpicarsi smoccolando e rotolare giù a valle smoccolando ancora di più, vederli sudare come fontane e invocare una patata in più per cena. Ma oltre le visioni di Zeman, va detto, i ritiri del secolo scorso non esistono quasi più: «E forse è giusto così, i tempi cambiano, magari ci siamo liberati dalla retorica sull’armonia del ritiro: quelli i vecchi erano monastici e non è detto che servissero così tanto a cementare il gruppo», ammette Paolo Bertelli, fitness coach del Chelsea di Antonio Conte, con lui nei tre scudetti juventini, a Trigoria per la prima era Spalletti. Il sapore da pane e salame del ritiro raccontato da Alberto Sordi nelle vesti dell’esaltato ma dubbioso proprietario del Borgorosso è un’immagine screpolata, aggredita dalla modernità. Il test di Cooper, i leggendari 12 minuti mutuati dalla Nasa in cui bisognava ricoprire, solitamente nei boschi, la distanza più lunga possibile (Liedholm stravedeva per il cimento e per come vi si dedicava in particolare Ancelotti), è stato soppiantato dal merchandising e dalle indagini di mercato.

La preparazione fisica e l’investimento dei club si sono trasformati al punto da «rovesciare la storia», racconta Vincenzo Pincolini, co-autore “fisico” del Milan di Sacchi e di Capello, «una volta le tournée duravano 35 giorni ma venivano programmate alla fine della stagione, la società faceva soldi, c’erano partite in Oriente che al Milan portavano un milione di dollari a botta, ma era tutto più sensato perché al termine del campionato si poteva anche viaggiare per il mondo senza rischi, invece adesso dopo 4 giorni si parte per gli Stati Uniti». Una volta imbarcarsi per la Cina, che non era mai vicina, corrispondeva a un’esperienza mistica, non tutti i calciatori, non tutti i dirigenti, non tutti gli allenatori sapevano a cosa stavano andando incontro. Nel ‘78 prima di salire sull’aereo Bersellini, che allora guidava l’Inter, fece testamento.

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