Katy Perry non è più quella di una volta

È uscito il suo nuovo disco e se ne parla poco e male, prevedendo un insuccesso: perché lei vorrebbe cambiare la sua immagine, ma non riesce

Venerdì scorso è uscito Witness, il quinto disco della cantante americana Katy Perry: se qualche anno fa sarebbe stata una delle notizie più grosse dell’anno, per quanto riguarda la musica pop, questa volta è passata quasi sottotraccia. Tra chi non è un grande fan di Perry non c’era molta attesa al riguardo, e nonostante una massiccia campagna promozionale – soprattutto negli Stati Uniti – i giornali e i siti di musica non hanno dedicato al disco la stessa attenzione di quella riservata ad altre uscite degli scorsi mesi, da Divide di Ed Sheeran a More Life di Drake. Ma a peggiorare le cose c’è stato il fatto che, una volta uscito, quasi tutte le recensioni sono state molto negative: arriverà al primo posto delle classifiche, dicono i critici, ma non è un gran disco pop.

Con Teenage Dreams, il suo terzo disco, uscito nel 2010, Perry era riuscita a infilare cinque singoli consecutivi – “California Gurls”, “Teenage Dreams”, “Firework”, “E.T.” e “Last Friday Night (T.G.I.F.)” – al primo posto della classifica di Billboard: prima di lei ci era riuscito solo Michael Jackson con Bad, nel 1987. “Teenage Dream” in particolare fu considerata da molti critici musicali una potenziale candidata a “canzone pop del decennio”, e il suo successo e la sua forza sono stati spiegati estesamente. Quell’anno si affermò come popstar del momento, in grado di rubare la scena a gente come Beyoncé o Lady Gaga. Prism, il suo disco successivo, uscito nel 2013, non ebbe lo stesso impatto ma conteneva comunque alcune canzoni che sono state a lungo in cima alle classifiche e che ricordiamo ancora oggi, come “Roar” o “Dark Horse”. La prima cosa che hanno notato i critici ascoltando Witness, invece, è che mancano canzoni così forti. La seconda è che l’idea dietro al disco non è chiara, o almeno quella che ha provato a comunicare Perry promuovendo il disco non è confermata dalle canzoni.

Witness infatti sarebbe dovuto essere il disco di una specie di “svolta politica” di Perry, che fino ad ora aveva tenuto un’immagine pubblica piuttosto frivola e staccata dall’attualità. Ma come ha spiegato su Slate Carl Wilson, la nuova Perry-impegnata dà un’impressione di inautenticità. Anche prima era così, in realtà, ma secondo Wilson era esattamente quello che le si chiedeva: «si lanciava in queste storie fiabesche e in costume, con un tale gusto e meraviglia che, per finestre di quattro minuti, faceva sembrare delle assurdità sognanti e inventate la cosa più adorabile e consolatoria che il mondo avesse da offrire». Spesso Perry è stata accusata di appropriazione culturale, cioè la pratica occidentale di sfruttare aspetti della cultura delle minoranze: le capitò con il video di “Dark Horse”, ambientato nell’antico Egitto, o quando nel 2013 agli American Music Awards cantò vestita da geisha giapponese. Nonostante le accuse ebbero una certa rilevanza negli Stati Uniti, secondo Wilson alla fine fu difficile arrabbiarsi davvero, proprio per come Perry aveva costruito la sua immagine, quasi da cartone animato senza contatti con la realtà.

Perry aveva un suo posto preciso, nel mondo del pop, secondo Wilson: se Lady Gaga era la cantante che si distingueva per come esponeva la propria eccentricità, Taylor Swift le sue riflessioni sulla sua vita privata, Miley Cyrus la sua smania per reinventarsi continuamente, Beyoncé il suo essere un simbolo per le donne afroamericane, Perry era quella più puramente pop, nel senso stretto del termine. Con Witness Perry – che ha 32 anni – ha voluto cambiare le cose. Promuovendolo, aveva detto che sarebbe stato un disco impegnato, anche con una certa ingenuità che fu un po’ presa in giro. Perry non era nuova a prese di posizione politiche – è stata una sostenitrice di Hillary Clinton e dei diritti delle persone LGBTQ – ma non aveva praticamente mai messo queste cose nella sua musica, come per esempio ha fatto spesso Beyoncé.

Il fatto è che in Witness di politico c’è molto poco: “Power” ha vaghi riferimenti al femminismo, mentre “Chained to the Rhythm” fa qualche riferimento alla necessità di partecipare attivamente al cambiamento della società. Ma l’impressione dei critici è che sia tutto abbastanza annacquato e poco maturo: una delle canzoni più forti del disco, cantata con Nicki Minaj, è l’ultimo capitolo di un litigio che Perry porta avanti da anni con Taylor Swift, fatto di interviste e allusioni nelle canzoni, senza che si siano capiti bene i reali motivi. All’inizio sembravano molto amiche, poi hanno iniziato a lanciarsi insulti obliqui senza che fosse capitato qualcosa. Ma soprattutto ci sono molte canzoni con testi che ricordano le prime canzoni di Perry, fatte di metafore buffe e piuttosto “basse”. Come in “Save a Draft”, dove a un certo punto cantando prende un respiro molto drammatico prima di annunciare che salverà un messaggio in bozze, invece di mandarlo a un suo ex. O in “Bon Appétit”, il singolo di Witness che è girato di più, realizzato insieme alla band rap dei Migos, che è una successione di metafore e allusioni tra il sesso e il cibo. E ha un video che si presta poco a essere interpretato.

Lo scorso weekend, Perry ha organizzato una diretta YouTube di 72 ore – con telecamere che la riprendevano mentre dormiva, mangiava, si truccava, cantava, faceva la classifica dei suoi ex fidanzati – in cui ha parlato pubblicamente con un psicologo dei suoi problemi. Durante il colloquio ha pianto molto, raccontando di aver sofferto di depressione e di avere avuto pensieri suicidi. Ha anche spiegato che vorrebbe staccarsi dal personaggio “Katy Perry” e mostrare Katheryn Hudson (il suo vero nome), senza che si sia capito esattamente cosa intendesse. La maggior parte dei momenti della diretta mostravano la vita di una delle più popolari star dello show business americano, con tutti i suoi privilegi: una condizione che di per sé non impedirebbe a Perry di farsi portavoce di alcuni temi sociali, come dimostra il successo in questo senso di Beyoncé. Ma l’impressione è che Perry abbia fallito questo suo tentativo di svolta artistica, verso un pop più maturo e consapevole.

Ma oltre ai problemi più di contesto, il principale ostacolo tra Witness è il successo è che non ci sono canzoni forti come i grandi singoli che ha sfornato Perry negli scorsi anni. Pitchfork ha scritto che le canzoni scelte come singoli, per esempio, non sono né abbastanza orecchiabili da essere singoli, né abbastanza profonde da essere canzoni da “disco pop di qualità”. Dietro Witness c’è sempre Max Martin, lo storico produttore di Perry, che in passato ha fatto le sue cose migliori anche con Dr. Luke, il produttore finito in mezzo alla brutta storia con la cantante Kesha, e che da allora sta lavorando poco. Secondo Pitchfork, l’asticella dei testi delle canzoni pop è bassa, e lo è ancora di più per Perry: ma quelli di Witness sono così deboli che «fanno sembrare Carly Rae Jepsen (la cantante di “Call Me Maybe, ndr) Yeats».
Musicalmente, secondo Pitchfork funzionavano meglio le canzoni di Prism: ce n’è qualcuna orecchiabile, come “Pendulum”, “Swish Swish” e “Chained to the Rhythm”, ma le migliori sono due ballad, “Miss You More”, realizzata con i Purity Ring, e “Into Me You See”, fatta con gli Hot Chip (entrambi rispettati gruppi della scena elettronica internazionale). Come ha scritto Spin, la domanda è dove andrà adesso Perry, visto che la sua carriera non è stata fatta di grandi rinnovamenti del proprio personaggio e della propria musica: «era semplicemente una cantante con un’artiglieria di indiscutibili canzoni pop, ma Witness suggerisce che le sue riserve possano essere finite. O nel tempo riesce a inventarsi un grande ritorno, oppure presto ci guarderemo indietro sorridendo di quanto fosse dappertutto, una volta».