È quasi arrivato quel giorno dell’anno in cui quasi ogni madre aspetta i figli a braccia conserte, per vedere se almeno o anche quest’anno si ricorderanno di farle gli auguri: ve n’eravate dimenticati ma sta per arrivare di nuovo la Festa della mamma. La mamma però non è solo quella biologica che, come anche un padre, può essere pessima e scarsa: in tutta la storia dell’umanità la funzione materna è stata svolta da lupe, pantere, suore, zie e soprattutto matrigne. Che sono, come le mamme, buone e cattive, ma che nessuno ha mai festeggiato. Per rimediare, in occasione della festa della mamma, che nel 2022 si celebra l’8 maggio, abbiamo raccolto alcune figure più o meno conosciute di matrigne e figure materne della letteratura, dando per scontato che quelle malvagie delle fiabe le conosciate già tutti: da quella immaginaria di Persepolis, alla vecchia e amabile signora Lolotta di Cesare Zavattini, dall’improbabile Holly Golightly di Colazione da Tiffany a quella che vorremmo avere tutti. E auguri, con chiunque vogliate festeggiarla.
La lupa
C’è una matrigna che è diventata addirittura il simbolo di una città e di una delle sue squadre di calcio. È la lupa che, senza chiedere nulla in cambio, soltanto per carità umana, allattò i gemellini Romolo e Remo, figli di Marte e della vestale Rea Silvia, a sua volta figlia del Re di Alba Longa Numitore, che a sua volta discendeva da Enea. Romolo, com’è noto, avrebbe fondato Roma. La leggenda è narrata da Tito Livio, Strabone, Plutarco, Dionigi di Alicarnasso e Diodoro Siculo. (Ma non è certo che sia vera)
Tito Livio, Ab Urbe condita, libri I, 4
Di mamma ce n’è una sola, di matrigne no
Uno dei vantaggi delle matrigne è che se di mamma ce n’è una sola, di matrigne possono essercene molte, e tutte diverse tra loro. Il romanzo di Thomas Berger Piccolo grande uomo, da cui Arthur Penn nel 1970 trasse il film omonimo con Dustin Hoffmann, ne offre un repertorio. A dieci anni, dopo lo sterminio della sua famiglia naturale, Jack Crabb è adottato dagli indiani Cheyenne e dalle mogli del suo padre adottivo. Lasciati i Cheyenne, Jack capiterà nella famiglia del reverendo Pendrake e soprattutto di sua moglie (nel film Faye Dunaway) scoprendo per la prima volta il concetto di “peccaminoso”.
Thomas Berger, Piccolo grande uomo (Little Big Man, 1964)
Non te ne libererai mai
Tzia Bonaria prende in casa la piccola Maria. Non è un’adozione e non si tratta di farle da matrigna, perché la madre naturale di Maria è ancora viva. È un’affiliazione, una pratica che in Sardegna esiste ancora, grazie a cui si può diventare fille de anima di un’altra madre, che ti garantirà ciò che i tuoi genitori non possono darti e a cui tu darai in cambio l’affetto e la cura, quando il momento verrà. Bonaria Urrai, infatti, è anziana. Anche se è la sarta del paese, a volte di notte esce di casa. In Accabbadora di Michela Murgia la figura della matrigna è speculare a quella della madre: dove la seconda dà vita, la prima prende la morte.
Michela Murgia, Accabbadora, 2009
Dovreste farvi le canne insieme, e invece
In Il Cardellino di Donna Tartt, Theo Decker ha 13 anni. Un giorno, mentre è al Metropolitan Museum di New York con sua mamma, una bomba esplode e la madre muore. Theo si trasferisce dal padre, un ex attore fallito, alcolizzato e mezzo drogato (decisamente un padre-pessimo-e-scarso), che vive alla periferia di Las Vegas insieme alla sua ragazza Xandra, una donna più giovane, abbronzata e palestrata, che mastica gomme americane, profuma di succo di frutta ed è spesso fatta di alcol, coca e psicofarmaci. (Ma che comunque ha una sua simpatia).
Donna Tartt, Il Cardellino – The Goldfinch
Da innamorarsene
Immaginate Holly Golightly, la protagonista di Colazione da Tiffany, giovanissima, un po’ svampita, bella, incasinata e piena di vita, a crescere bambini altrui? Immaginatela come faceva Capote, l’autore, molto più simile a Marilyn Monroe che a Audrey Hepburn, che poi la interpretò al cinema. Forse se li sarebbe dimenticati in giro da qualche parte, li avrebbe fatti addormentare sul divano tirando tardi alle feste o ne avrebbe affascinato qualcuno, come fa fare Mario Vargas Llosa a Donna Lucrezia in L’Elogio della matrigna, ma con più civetteria e leggerezza. Lo si dimentica, ma Holly è stata davvero una matrigna e si è dovuta occupare dei figli di Doc Golightly, il vedovo che aveva sposato quando era ancora Lulamae Barnes, una semplice adolescente del Texas: era la sua vita precedente, prima che scappasse a New York a reinventarsi e iniziare a vivere. Il giro si chiude perché per Lulamae-Holly Capote si ispirò a sua madre, una madre-matrigna che da un paesino dell’Alabama scappò nella grande città, New Orleans, e rispedì il figlio da una cugina in provincia, per godersela meglio.
Truman Capote, Colazione da Tiffany – Breakfast at Tiffany’s, 1958
Matrigne immaginarie
Nuova frontiera del cane-mi-ha-mangiato-i-compiti: la matrigna cattiva. In Persepolis, il graphic novel iraniano da cui nel 2007 è stato tratto un film animato, la protagonista Marji viene fermata e rimproverata da un gruppo di donne per il suo abbigliamento troppo occidentale – indossava una giacca in jeans e un paio di sneakers – che minacciano di portarla dalle autorità. Marji scoppia a piangere, si inventa di essere orfana di madre e che la sua cattivissima matrigna la punirà bruciandola con un ferro da stiro e la manderà in un orfanotrofio. Il fantasma della matrigna spietata fa presa anche su donne dal cuore non proprio tenero, che la lasciano andare.
Marjane Satrapi, Persepolis – Persepolis, 2000
Matrigne non convenzionali
Tra le matrigne buone ci sono zie che poi diventano madri adottive, a volte con successo a volte meno, soprattutto quando hanno una concezione di cura che equivale a cenare con la luce spenta e accumulare barattoli di latta vuoti e foglie secche in giro per la casa. In Le cure domestiche di Marilynne Robinson (ve lo ricordate quando la intervistò Obama?) è così che fa Sylvie, l’eccentrica e misteriosa zia delle sorelle Ruth e Lucille, rimaste orfane una prima volta dopo il suicidio della madre Helen e una seconda volta dopo la morte della nonna. Per alcuni nipoti una madre così, che non si arrabbia quando si salta la scuola e in una vita precedente viveva come vagabonda saltando da un treno merci all’altro, può andare bene, ed è il caso di Ruth, per altri meno.
Marilynne Robinson, Le cure domestiche – Housekeeping, 1980
A scrivere di matrigne lo si diventa
La conosciamo tutti per il musical della Disney, ma prima ancora è stata la protagonista di otto libri per bambini scritti tra il 1934 e il 1988 dall’australiana, naturalizzata britannica, Pamela Lyndon Travers. Travers scrisse il primo libro da adolescente per distrarre le sorelle dalla depressione della madre, e non serviva anche questo particolare per capire che Mary Poppins – bambinaia severa, magica e bizzarra – è un surrogato di madre ideale. Nella contrapposizione tra madre e matrigna, qui la matrigna trionfa, prendendo il posto di una madre distratta che trascura i figli per fare la suffragetta. Altri cerchi che si chiudono: a 40 anni Travers adottò un bambino irlandese, e forse divenne lei stessa la matrigna che aveva sempre immaginato.
Pamela Lyndon Travers, Mary Poppins – Mary Poppins, 1934
Matrigna vs Patrigno
Esiste un modello di matrigna universale, che non si limita ad adottare un bambino o un paio, ma fonda orfanotrofi. L’anziana signorina Rachel Cooper dà rifugio, cibo e alloggio ai bambini in fuga dalla fame e dalle violenze della Grande depressione americana. Anche ai piccoli John e Pearl che per scappare al loro perfido patrigno, il reverendo Harry Powell che ha le dita tatuate con le parole HATE e LOVE, hanno navigato di notte su un fiume della Virginia. Da La morte corre sul fiume (The night of the hunter, 1953) di Davis Grubb, Charles Laughton e lo scrittore James Agee ricavarono il film con Robert Mitchum, Shelley Winters e la diva del muto Lillian Gish nella parte di miss Cooper.
Davis Grubb, La morte corre sul fiume – The night of the hunter, 1953
Matrigna vs. Orfanotrofio
Totò è nato sotto un cavolo. Per fortuna viene trovato dalla signora Lolotta che lo porta a casa con sé e lo alleva con amore. Purtroppo Lolotta è vecchia, molto vecchia, e muore. Totò finisce in orfanotrofio a Milano, probabilmente dai Martinitt, e una volta diventato grande entra in contatto con una comunità di senzatetto accampati all’aperto dalle parti della ferrovia di Lambrate. Quando il terreno viene espropriato per farne palazzi, Lolotta scende dal cielo e consegna a Totò una colomba magica. È la storia del romanzo Totò il buono di Cesare Zavattini, che poi sarebbe diventato Miracolo a Milano di Vittorio De Sica. L’idea del romanzo nacque inizialmente come soggetto. Si racconta che Cesare Zavattini lo propose al produttore Rizzoli tirando fuori di tasca un foglietto spiegazzato su cui aveva annotato soltanto: «Qualche volta anche a Milano i poveri possono essere felici».
Cesare Zavattini, Totò il buono, 1943
E addirittura, Matrigne VS Padri
La prima è l’energica bambinaia, madre di una nidiata di figli «sani come mele», del piccolo Paul Dombey jr, orfano di madre e figlio di Paul Dombey sr, un uomo d’affari rinchiuso nella propria grettezza e ambizione. La seconda è la sua nuova moglie, una ragazza più giovane e orgogliosa inorridita dall’aridità del marito che, però, decide di non andarsene soltanto per amore della piccola Florence, la figlia femmina di Dombey che lui non ha mai degnato di uno sguardo. In Dombey & Son di Charles Dickens le figure di queste due madri ulteriori vendicano schiere di matrigne cattive della storia della letteratura.
Charles Dickens, Dombey e Figlio, Dombey & Son, 1848
Autobiografia di una matrigna di successo
Quelli di voi che passano il Natale a cantare guardando Tutti insieme appassionatamente conoscono la storia, ma forse non sanno che è tratta dall’autobiografia dell’austriaca Maria Trapp, La famiglia Trapp, pubblicata nel 1949. Qui, in questo polpettone che celebre l’idea della famiglia americana, è la matrigna a raccontarsi da protagonista: a 21 anni è la devota ma vivace novizia di un convento, che finisce per fare l’istitutrice della figlia di un barone vedovo (che ha sette figli). In breve: lei è brava, saggia, si sacrifica per i figli di lui, che si innamora di lei, tronca con la fidanzata e dopo anni di amore segreto si dichiara e la sposa. Fanno tre nuovi figli, ma l’arrivo della Seconda guerra mondiale li obbliga a scappare negli Stati Uniti, dove si mantengono cantando. Finisce la guerra, lui muore di cancro, lei riesce a tenere salda e serena la famiglia grazie alla fede; poi diventa cittadina americana, scrive il libro, finisce a fare la missionaria. E vissero tutti felici e contenti.
Maria Trapp, La famiglia Trapp – The story of the Trapp Family Singers, 1947
Quella che vorremmo avere tutti
Kim Rosenthal è la seconda moglie di Mike Doonesbury, il protagonista della celebre striscia di fumetti americana disegnata dal 1970 da Garry Trudeau. È un’orfana vietnamita adottata da una famiglia ebrea americana, più giovane di lui, e molto geek: abbandona un dottorato al MIT ritenendolo troppo facile e va a lavorare a Seattle come programmatrice. Quando incontra e poi si sposa con Mike, lui è divorziato e ha una figlia, Alex, e il rapporto che Alex e Kim costruiscono insieme è invidiabile per madri e matrigne: non hanno una grossa differenza di età, sono entrambe fissate di informatica, si divertono a pattinare sul ghiaccio e sono golose di Skittles. Kim è a metà strada tra una figura materna e un’amica e compensa il rapporto complicato di Alex con la madre biologica: è per esempio lei che l’aiuta a vestirsi il giorno del suo matrimonio.
Garry Trudeau, Doonesbury, l’albo integrale dal 1970 al 1972