Perché il cambiamento climatico ci interessa così poco, e come cambiare le cose

Ci sono delle ragioni psicologiche per cui non abbiamo voglia di occuparci di un problema anche se ne siamo a conoscenza, e delle cose semplici che possiamo fare per migliorare

(Lukas Schulze/Getty Images)
(Lukas Schulze/Getty Images)

Perché le notizie sul cambiamento climatico spesso ci annoiano, magari al punto di non aver voglia di leggere questo articolo che ha l’espressione “cambiamento climatico” nel titolo? Perché anche se siamo convinti che il cambiamento climatico sia reale la maggior parte del tempo non agiamo attivamente per contrastarlo? Lo psicologo ed economista Per Espen Stoknes, autore del saggio What We Think About When We Try Not to Think About Global Warming, ha provato a rispondere a queste domande analizzando centinaia di studi di scienze sociali sull’argomento ed è giunto alla conclusione che ci siano cinque ragioni psicologiche per cui la lotta al cambiamento climatico coinvolge poco le persone.

Sono riassunte in cinque concetti: la distanza, sia temporale che spaziale delle conseguenze negative del cambiamento climatico; il destino, cioè il fatto che percepiamo il cambiamento climatico come inevitabile ormai; la dissonanza tra ciò che facciamo ogni giorno – andare in automobile, tenere il riscaldamento acceso, consumare plastica – e ciò che sappiamo dovremmo fare, che è una cosa che ci fa sentire ipocriti; il rifiuto del problema, che viene naturale quando non vogliamo sentirci responsabili; e infine l’identità, intesa come identità culturale e valori politici, che spesso nelle persone con orientamento conservatore spinge al rifiuto.

Stoknes ha spiegato a Vox che la paura di qualcosa di apparentemente inevitabile e lontano ci rende passivi, e che quando poi ci sentiamo anche colpevoli (perché sappiamo di non fare abbastanza per risolvere il problema) preferiamo non pensare al problema per cui abbiamo i sensi di colpa. Quando si parlava soprattutto del buco nell’ozono, cioè nella fascia di gas che avvolge la terra e la protegge dai raggi ultravioletti del sole tra le altre cose dannosi per la pelle, era stato facile influenzare il comportamento delle persone di tutto il mondo e far prendere loro provvedimenti fino a (più o meno) risolvere il problema: un po’ perché la causa del problema era ben visibile a tutti sotto forma di bombolette spray nelle cucine e nei bagni delle case, un po’ perché i raggi ultravioletti hanno la conseguenza diretta e non lontana nel tempo di provocare tumori della pelle. L’anidride carbonica emessa da automobili, impianti di riscaldamento, fabbriche e allevamenti intensivi è invisibile e la sua diffusione nell’atmosfera ha conseguenze molto più complesse. Anche l’espressione “buco nell’ozono” funzionava di più a livello comunicativo rispetto a “cambiamento climatico”: descriveva un problema meno vago e con un’immagine concreta.

Secondo alcuni la satira e la comicità potrebbero aiutare a parlare di cambiamento climatico in modo coinvolgente, ad esempio come fece il conduttore e comico britannico John Oliver nel 2014 quando mostrò come sarebbe un dibattito televisivo tra scienziati che negano il cambiamento climatico (una piccolissima minoranza) e scienziati che riconoscono il riscaldamento globale e il ruolo che ha avuto e ha l’uomo nei cambiamenti climatici se le proporzioni tra i due gruppi fossero mantenute: ci sarebbe una stanza piena di gente molto competente che dà contro a tre negazionisti.

Secondo altri per coinvolgere di più le persone sulla questione del cambiamento climatico bisognerebbe mostrare loro le previsioni degli scienziati sotto forma di immagini come quelle realizzate dall’organizzazione di scienziati e giornalisti Climate Central: si vedono alcuni luoghi famosi di grandi città parzialmente sommersi dall’acqua, come sarebbero se la temperatura media globale si alzasse di 2 gradi centigradi.

Vox ha fatto una lista di alcune iniziative più serie che sono state messe in pratica negli Stati Uniti per provare a rendere “visibile” il problema del cambiamento climatico. La prima è un esperimento sul comportamento delle persone in relazione ai consumi energetici fatto dall’Università della California e chiamato Engage: 120 appartamenti del campus dell’università sono stati attrezzati con strumenti di misurazione dei consumi elettrici per ciascun elettrodomestico in modo da permettere ai singoli abitanti di controllare in tempo reale la quantità di energia utilizzata dalla propria casa. I ricercatori di Engage hanno scoperto che avvisare le persone dei risparmi economici possibili facendo attenzione ai consumi energetici è inutile quando l’elettricità costa poco; invece spiegare periodicamente alle persone i rischi per la salute dei bambini legati all’inquinamento ha avuto un effetto maggiore: ha portato a una riduzione del 9 per cento del consumo di energia, del 19 per cento nelle sole case con bambini.

Un altro approccio che ha funzionato particolarmente bene, tentato in un altro studio della stessa università, è stato creare delle specie di pagelle condominiali sugli sprechi di energia, aggiornate periodicamente: grazie allo stimolo competitivo instillato nelle persone che volevano dimostrare agli altri il loro impegno in difesa dell’ambiente, i ricercatori hanno ottenuto una riduzione del consumi energetici del 20 per cento. La società americana Opower fa qualcosa di simile nelle bollette di varie società energetiche: permette di confrontare i propri consumi con quelli dei propri vicini. Questo sistema, che fa sembrare il risparmio una competizione, nel 2016 ha permesso di risparmiare 2 terawattora, la quantità di energia sufficiente, ad esempio, per tutte le case della città di Miami per un anno intero. Pare che lo spirito competitivo sia molto più efficace del senso di colpa.