A dieci anni di distanza dal suo ultimo lavoro di successo e rilievo, il 9 aprile apre a Venezia la nuova mostra di Damien Hirst, un artista inglese – nato a Bristol 51 anni fa, e cresciuto a Leeds – di cui difficilmente non avete mai sentito parlare. È uno dei più famosi e controversi al mondo, oltre che ricchi, e le sue opere sono tra le più quotate: gli anni Novanta lo hanno trasformato dal ragazzo cresciuto senza mai conoscere il padre e cresciuto da una madre oppressiva, a un miliardario al centro della scena artistica mondiale, giudicato di volta in volta un genio o un abile manovratore del mercato. È facile quindi comprendere l’attesa di critici e pubblico attorno a Treasures from the Wreck of the Unbelievable, che fino al 3 dicembre sarà ospitata a Punta della Dogana e a Palazzo Grassi: per la prima volta entrambi gli spazi espositivi della Fondazione Pinault saranno dedicati in contemporanea allo stesso artista. In più è dal 2004 che in Italia non si tiene una sua grande mostra personale, dalla retrospettiva The Agony and Ecstasy al Museo Archeologico Nazionale di Napoli nel 2004.
La nuova mostra però – allestita dalla curatrice Elena Geuna in quattro mesi – è anche l’evento legato a Hirst più atteso dal 2008, quando vendette tutte le nuove opere della serie Beautiful Inside My Head Forever a un’asta di Sotheby’s, senza passare per la tradizionale mediazione delle gallerie ma rivolgendosi direttamente al pubblico. Fu un successo enorme con un incasso di 111 milioni di sterline, il record per una singola d’asta di un artista vivente: e il fatto che avvenne nello stesso giorno in cui il fallimento di Lehman Brothers diede inizio alla crisi economica mondiale non fece che aumentarne la leggenda. Da allora le opere di Hirst non hanno avuto lo stesso impatto, anche economico, e in molti hanno iniziato a definirlo un artista finito o in crisi: questa è la sua occasione di riscossa.
Hirst lavora alla sua nuova opera da dieci anni. Esponente principale dei Young British Artists, i suoi lavori più celebri sono le teche di animali morti, sezionati e immersi nella formaldeide per conservarli (il più celebre di tutti è lo squalo di The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living del 1991); A Thousand Years, che rappresenta il ciclo della morte con una testa di vitello divorata dalle larve che si trasformano in mosche fulminate dalla corrente elettrica; For the Love of God, il teschio umano ricoperto di platino e 8.601 diamanti; i dipinti realizzati con ali di vere farfalle; e gli armadietti di pillole e medicinali. Le aspettative sono state ingigantite dallo stesso Hirst, che è molto abile nel provocare e far parlare di sé attraverso un’arte che è soprattutto un evento e un messaggio scioccante, irriverente o controverso.
Il contenuto della mostra è stato tenuto nascosto fino all’ultimo momento: le poche immagini circolate insieme a due video brevissimi mostravano figure dai contorni misteriosi sul fondo del mare, o comunque circondate dall’acqua, e l’unica giornalista ad aver anticipato qualcosa era stata Catherine Mayer in un articolo di fine marzo sul Financial Times, in cui raccontava di aver partecipato con un gruppo di sub a un’operazione di recupero di alcuni oggetti, naufragati insieme a un relitto misterioso Duemila anni fa al largo di una non meglio specificata costa dell’Africa orientale.
La mostra espone 189 oggetti recuperati da questo vascello, ritrovato dagli archeologi nel 2008 e a cui Hirst si è interessato finanziando le delicate operazioni di recupero e di restauro. In realtà, com’è volutamente evidente da subito, tutti gli oggetti sono stati realizzati da Hirst e dai suoi collaboratori, mescolando materiali antichi e contemporanei, come il bronzo e l’oro con l’acciaio e i LED, e busti di divinità egizie, greche e induiste con statue di Topolino e Pippo, modellini dei Transformers, Mowgli che gioca con l’orso Baloo e due autoritratti di Hirst che si spaccia per Cif Amotan, il proprietario della barca affondata. L’opera è un gioco, una metafora e una critica al mondo dell’arte, oltre che la creazione di un grande mito: come ha detto lo stesso Hirst, «tutto sta in quel che volete credere».
La mostra è imperniata su questa ambivalenza. Il recupero dei tesori è “attestato” da fotografie, video e da un filmato proiettato a Palazzo Grassi, così come dalle didascalie che accompagnano gli oggetti esposti. Gli oggetti però sono evidentemente contemporanei e con incrostazioni fittizie, e i filmati potrebbero essere stati girati con modellini in un acquario, mentre l’operazione di recupero è raccontata soltanto da Mayer: resta il dubbio se e quanti siano gli oggetti che Hirst ha effettivamente fatto affondare e poi recuperato, e quanti invece provengano direttamente dalle fonderie inglesi e dal suo laboratorio, come scrive il New York Times. Soprattutto, resta il dubbio su quale sia l’ipotesi più affascinante e coerente: che sia tutto uno scherzo, anche i filmati e il racconto di Meyer, o che effettivamente Hirst abbia portato avanti il gioco fino a ricreare l’affondamento di un vero vascello e il recupero dei suoi tesori. Tra le opere esposte c’è di tutto, tanto che pare di aggirarsi in un enorme museo o nella casa di un collezionista che ha raccolto e catalogato ogni singola espressione artistica del mondo antico.
L’impressione è che Hirst abbia voluto salvare, ricreare e reinventare – mescolandone gli stili e confondendone le linee temporali – tutta l’arte antica con l’aggiunta di alcune spiazzanti opere pop e contemporanee. Il paragone facile ma affascinante è quello con Pierre Menard, il personaggio inventato da Jorge Luis Borges che, nella Francia del Ventesimo secolo, riscrive parola per parola le pagine del Don Chisciotte realizzandone una copia che è, in un certo senso, una nuova opera d’arte, verbalmente identica ma diversa e più ricca.
La mostra inizia idealmente a Punta della Dogana, una struttura costruita nel Diciassettesimo secolo e che assomiglia alla prua di una nave, dove vengono ospitate le statue più monumentali e non ancora sottoposte ad alcun tipo di pulitura o restauro, ancora ricoperte di finti coralli e conchiglie, e corrose dal mare. Si apre con un calendario bronzeo che ricorda la Piedra del Sol, uno dei calendari di pietra aztechi utilizzati per impostare le date delle cerimonie religiose e per predire eventi di portata capitale, come l’Apocalisse: è uno dei molti oggetti provenienti dal Sudamerica in epoca precolombiana, un viaggio nel tempo dal risultato straniante che è una facile metafora della stessa mostra.
Il sincretismo pervade tutte le sale: ci sono una scultura monumentale bronzea raffigurante una donna su un orso che richiama un rito greco di iniziazione, torsi nudi greci in marmo rosa che – dice la didascalia – arrivarono misteriosamente ai Surrealisti che li esposero a Londra negli anni Trenta, il resto di un piede colossale di Apollo con un topo sopra, moltissime copie della testa della Medusa e una statua dell’Idra greca, il serpente dalle molte teste, che combatte con la dea indù Kali.
Una statua raffigura Aracne, la ragazza che sfidò Atena a tessere e che venne trasformata per stizza dalla dea in un ragno, ma che qui è trasfigurata in una mosca, un animale frequente nell’arte di Hirst, ossessionato dall’idea e dalla rappresentazione della morte: la statua è una prosecuzione ideale del teschio che realizzò come Memento mori e una rivisitazione personale della bellezza classica, che finisce inevitabilmente nella decomposizione e nella morte.
Ci sono poi lingotti con iscrizioni greche, cinesi, maya e romane, elmetti, spade e vasi dai materiali più disparati: bronzo, vetro, alluminio, silicone, acciaio. E c’è anche una statua che raffigura, spiega sempre la didascalia, Cif Amotan insieme a un suo amico: e sono evidentemente lo stesso Hirst e Topolino.
L’eccesso monumentale della statua del demone si riflette nell’opulenza della mostra: per la quantità degli oggetti, per la ripetitività di uno stesso modello, per la ricchezza e varietà dei materiali. È una ridondanza che alcuni critici hanno trovato stucchevole e alla lunga stancante, e che altri hanno invece apprezzato come coerente e inevitabile. Sempre Dalley parla per esempio di una «visione follemente enfatica e sovrastante, un’accozzaglia quasi casuale di tesori che un tempo si sarebbe vista solo nelle collezioni principesche (ma che ora può essere realizzata da un artista miliardario). Jonathan Jones del Guardian scrive che questo «museo immaginario non è soltanto impressionante, ma è commovente. Hirst condivide con noi la sua passione. Ovviamente ama l’arte, ama l’arte e il suo mistero inspiegabile. Traspare anche un amore per la storia o piuttosto un amore per il tempo. L’arte è modificata dal tempo come i vascelli sono modificati dal mare. Il cucchiaio di oggi è la reliquia meravigliosa di domani».
Il trascorrere del tempo, la morte e la decomposizione, il tentativo di combatterle o fermarle attraverso l’arte – che a sua volta si serve per questo della morte – sono tutti temi centrali nelle opere di Hirst, che ha ucciso farfalle per farne quadri e conservato pecore e vitelli immergendoli nella formaldeide, un elemento tossico che, disse una volta, «è pericoloso e ti brucia la pelle. Se lo respiri ti soffoca, ma sembra acqua. Io la associo alla memoria». Per questa mostra ha affondato, almeno idealmente, il sogno di un suo alter ego di Duemila anni fa, l’ha recuperato salvandolo dall’acqua e dalle sue corrosioni e l’ha riportato alla luce per preservarlo e raccontarlo in una storia. È presto per dire se abbia funzionato ma pare che i collezionisti siano pronti a pagare tra i 500 mila e i cinque milioni di dollari per una singola opera (cioè tra i 470 mila e i 4,7 milioni di euro). Quel che è certo è che, piaccia esteticamente o meno, la trovata di Hirst riesce a comunicare un messaggio più o meno stratificato sia ai critici che alle persone normali che andranno, più o meno informate e incuriosite, a visitare la mostra. In breve: in un periodo in cui pare che si sia già scritto, detto e inventato tutto, l’arte ha ancora qualcosa da dire e riesce ancora a stimolare pensieri e fantasie.
Treasures from the Wreck of the Unbelievable si conclude con due mani in malachite in atteggiamento di preghiera, l’ultimo evidente richiamo all’idea che l’arte è una religione, o quantomeno qualcosa che funziona solo se ci si crede.