Quanto privato può starci, nell’università pubblica?

Filippomaria Pontani critica i recenti accordi dell'università Ca' Foscari di Venezia con un incubatore di start-up, per l'ingiusta distribuzione di costi e benefici

di Filippomaria Pontani

In piena Seconda guerra mondiale, l’americano James Burnham aveva previsto il progressivo disfarsi del capitalismo non già a vantaggio del socialismo, bensì per l’avvento di una “società manageriale”, in cui tutto il potere non sarebbe più stato in capo ai Parlamenti e nemmeno ai dittatori o ai grandi proprietari o ai capitalisti, bensì ai manager, coloro che svolgono “compiti di direzione tecnica e coordinamento del processo produttivo”, sia in àmbito amministrativo che finanziario (La rivoluzione manageriale, 1941). Ad alcuni questa profezia può sembrare oggi parzialmente azzeccata; ad ogni buon conto, l’università Ca’ Foscari di Venezia ha deciso di attrezzarsi, istituendo – oltre al corso di laurea in Economia e Management – un nuovo corso di laurea triennale in “Digital Management” , in inglese e a numero chiuso (max 90 studenti), volto a formare (si legge nel piano) laureati competenti in business management, marketing digitale, e-commerce, sicurezza informatica, e capaci di sviluppare (come start-up) o di dirigere e gestire progetti innovativi nell’àmbito dei sistemi informativi e informatici sia in organizzazioni complesse (industria 4.0) sia in istituzioni pubbliche e private.

Il corso, non ancora vidimato dal MIUR (ma le prove d’accesso per l’iscrizione all’a.a. 2017/2018 cominciano tra pochi giorni), verrà realizzato in partenariato con l’azienda H-Farm di Ca’ Tron (Roncade, nella campagna tra Venezia e Treviso), un’incubatrice d’imprese quotata in Borsa e annoverata tra le realtà imprenditoriali più moderne del Nordest (per quanto il suo ultimo bilancio pubblico, relativo al 2015, segni un passivo di oltre 4 milioni di euro, e quello del 2016 – non ancora approvato dai soci – un passivo di 6,2): essa fu consacrata fra l’altro dalla prima uscita pubblica di Matteo Renzi da premier nel lontano 2014. Proprio nel campus di Ca’ Tron, in parte esistente e in larga parte ancora da costruire tramite un recentissimo finanziamento di 101 milioni proveniente da un Fondo cui partecipano Cattolica Assicurazioni e Cassa Depositi e Prestiti (ma la costruzione è stata bloccata dalla Regione per mancanza di VAS e per una serie di problemi sul piano dell’equilibrio idrogeologico e delle cubature, che triplicherebbero quelle esistenti sull’area agricola: non proprio un bell’inizio per chi fa della “sostenibilità” un mantra), proprio nel campus di Ca’ Tron dunque avverrà tutta la didattica, intesa fra l’altro a sviluppare i soft skills degli studenti, e consistente meno in lezioni cattedratiche e più in un learning by doing; la prova finale sarà un project-work realizzato in una delle start-up dell’ecosistema H-Farm. Una sorta di upgrading di un progetto (il Contamination Lab: “le idee degli studenti diventano impresa”) lanciato in pompa magna nel 2013 ma poi smarritosi nelle nebbie di pagine web e Facebook inattive. Un corso, insomma, dichiaratamente “professionalizzante”, per rispondere alle richieste delle imprese prevedibili “nei prossimi 5, 6, 10 anni” (così il fondatore e presidente di H-Farm, Riccardo Donadon).

L’accordo stipulato fra H-Farm e Ca’ Foscari di anni ne dura in verità ben 15. Per questo tempo H-Farm si impegna a finanziare, tramite fideiussioni, 3 posizioni di professore associato negli ambiti disciplinari del corso (il profilo verrà concordato con l’Università, presso la quale i docenti saranno incardinati), nonché il costo di 2 passaggi da ricercatore a tempo determinato a professore associato; inoltre si occuperà di tutorato, logistica, attrezzature e dei trasporti da e per Venezia per i docenti coinvolti. Ca’ Foscari invece offrirà de suo tutti gli altri numerosi insegnamenti necessari al corso di laurea (salvo eventuali contratti, che saranno a carico dell’impresa), e assumerà nuovi docenti ad hoc (il bando per il primo è già partito, ancor prima dell’accreditamento ministeriale del corso, che viene dato per scontato): si prevede dunque che nei prossimi anni una cospicua mole di risorse pubbliche saranno drenate verso questo progetto. Formalmente, segreteria didattica e organizzativa saranno nel Campus, gestite da personale dell’azienda; ma è del tutto chiaro che la gestione delle carriere degli studenti, i quali risulteranno iscritti all’Università di Venezia, sarà in capo agli uffici dell’Ateneo. Nell’accordo non si parla di altri aspetti, come la ricaduta sui trasporti pubblici (di cui s’interessa invece il suddetto parere della Regione sul campus) o la residenzialità studentesca.

L’elemento più eclatante del corso è rappresentato dalle tasse di iscrizione: in un Paese in cui, ad onta di certa propaganda, esse non sono certo basse, e in un Ateneo che continua a esigere rette tra le più elevate d’Italia, le tasse per il corso in Digital Management ammontano a 7.500 euro annui, di cui 2.000 rimarranno a Ca’ Foscari e 5.500 verranno versati direttamente a H-Farm (dietro rendicontazione delle spese sostenute); sono promesse 20 borse di studio.

Accade pertanto che un soggetto pubblico (l’Università) esiga dai propri iscritti un’alta cifra, che versa per il 73% a un soggetto privato, scelto peraltro senza una preventiva gara; in 15 anni H-Farm riceverà così (secondo una stima prudenziale, e probabilmente per difetto, di 50 iscritti paganti all’anno) circa 14 milioni di euro, spendendo per la docenza poco più di 4 milioni; la differenza (10 milioni di euro) verrà impiegata – si deduce – “per logistica e attrezzature”, per le navette dei docenti, e “per l’integrazione col mondo delle startup e delle imprese digitali, l’allestimento dei laboratori del Campus, la realizzazione dei corsi con manager e professionisti aziendali, delle attività di sviluppo delle soft skills, nonché… per i tutors dei corsi che seguiranno i gruppi di lavoro degli studenti nei vari project works aziendali, per l’uso di tecnologie digitali avanzate”.

Accade inoltre che l’Università qualifichi giustamente questo corso come “altamente innovativo” e di alto profilo e, per bocca del suo Rettore, faccia notare come gli studenti “pagano… ma poi hanno il posto di lavoro garantito”. Si potrebbe trarre (ma lo fa soltanto la CGIL) l’automatica conclusione che gli altri corsi (e intendo anche quelli direttamente concorrenti, come il semplice Management, per non parlare di quelli dell’area scientifica, linguistica o umanistica) non siano né innovativi né di alto profilo (sebbene le valutazioni della recentissima VQR, per quel che valgono, rappresentino una gerarchia esattamente opposta), e soprattutto – a differenza del Corso condendo – non garantiscano un bel nulla: una sorta di “bad company” a disposizione degli studenti meno “smart”, o – forse meglio – meno ricchi.

Omettiamo come certamente trascurabile il fatto che l’ex rettore di Ca’ Foscari, Carlo Carraro, noto manager già distintosi a suo tempo per un fallito tentativo di alienazione di alcune sedi prestigiose dell’Ateneo, sia oggi a capo della branca “Education” di H-Farm (una branca che nel 2015, dopo aver incorporato un paio di istituti privati del Trevigiano, aveva ancora una redditività negativa, e mirava a tornare in attivo negli anni successivi: ci siamo) e presidente della locale Fondazione, e concentriamoci sulla sostanza ideologica dell’iniziativa: non siamo qui dinanzi a un esempio di mecenatismo, o di investimento di un privato all’interno di un’istituzione, ma parliamo della sostanziale abdicazione alla natura pubblica dell’università in pro di un modello privatistico che ha goduto di una certa popolarità presso alcuni nostri pensatori, ma perfino negli Stati Uniti è stato sottoposto di recente a forte critica. Non vogliamo qui nemmeno discutere (in mancanza ad oggi di un dettagliato business plan consultabile) del sospetto di alcuni, che cioè – a conti fatti – l’impresa H-Farm adibirà parte dei denari degli studenti dell’università pubblica a scopi legati essenzialmente alla propria gestione e al proprio business (del resto, essendo un’azienda privata, ha ogni diritto di comportarsi come tale), specie in un momento in cui attraversa una fase di forte espansione per la costruzione del suo costoso campus, e l’affitto dei terreni, da pagare alla sullodata Cattolica Assicurazioni, dovrà essere di certo elevato. Quel che si può dire per ora è che con questo accordo l’Università diventa sostanzialmente un canale che convoglia risorse proprie e dei propri studenti, nonché anzitutto il proprio marchio (che è anche – a torto o a ragione – un marchio di garanzia, di qualità, di prestigio accumulato negli anni), verso un disegno la cui sede (anche fisica) e la cui gestione sono altrove, fuori della mano pubblica.

Per coincidenza, proprio in questi giorni Ca’ Foscari ha incamerato 375.000 euro all’anno per tre anni dal facoltoso armatore tedesco Erck Rickmers, già per pochi mesi deputato socialdemocratico del Land di Amburgo, e già coinvolto in vicende relative all’assegnazione dei mondiali di calcio 2022 al Qatar (accompagnò Beckenbauer dall’emiro). La sua “International Foundation for the Humanities and Social Change” è ad oggi (28 marzo) una homepage vuota, ma tra pochi mesi a Ca’ Foscari l’ “International Center for Humanities and Social Change” propiziato dal facoltoso mecenate inizierà a “studiare i più pressanti problemi della società contemporanea e della sua evoluzione sul piano tecnologico, culturale ed economico”: chissà se tra questi problemi sarà compreso anche il difficile destino dell’università pubblica nel mondo d’oggi.