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  • Mercoledì 2 novembre 2016

La solitudine dei traduttori

Chi sono e come lavorano le persone che passano la vita a scrivere cose scritte da altri, per farle leggere a noi

di Giacomo Papi – @giacomopapi

Nella classifica dei mestieri solitari, i traduttori si giocano il primo posto con i guardiani del faro. La voce di chi scrive, al di là della pagina, e i personaggi che ci vivono dentro, tengono compagnia al traduttore come le navi lontane e gli stridii dei gabbiani ai guardiani del faro. Navi e gabbiani sono più concreti; voci e personaggi – a volte, non sempre – più variegati e interessanti. Vivere in compagnia di parole altrui, da riscrivere da capo ma in cui scomparire, può provocare alienazione: anche perché gli scrittori, i personaggi e le idee spesso sono intensi, ossessivi o, peggio, noiosi. Passare la vita a scrivere cose scritte da altri, alimenta lo stupore che la scrittura esista e resista anche al di fuori della lingua in cui è nata, ma impone dolorosamente di scomparire dentro il proprio lavoro. Tradurre comporta anche qualche vantaggio, oltre all’assenza di scocciatori reali: non dover uscire di casa quando piove, per esempio, o poter organizzare il proprio tempo senza essere legati a un unico luogo. Oggi, per esempio, Gioia Guerzoni – che traduce dall’inglese per Einaudi, Mondadori, Feltrinelli, Saggiatore, NN, Racconti, Codice e Contrasto, non più per Fazi – abita ad Haifa, in Israele, ma in passato ha abitato in Scozia, India e America. Se avesse scelto un altro mestiere non avrebbe potuto.

Tradurre è un mestiere fondamentale, ma invisibile o quasi. Da qualche anno anche in Italia qualche sparuto e volenteroso editore mette il nome del traduttore in copertina o in quarta, invece che sul frontespizio interno. Ma sono pochi e piccoli. Inoltre non è un lavoro ben pagato: semplificando – e tacendo del selvaggio sottobosco editoriale dove le paghe sono davvero ridicole, e le traduzioni per istituzioni e musei dove raddoppiano – la paga media per chi lavora da dieci anni è 11-13 euro a cartella lorde, 15-17 per chi lavora da venti e poco più, 19-20, per i “quotati” per arrivare a 23-24 per i traduttori più richiesti. Tradurre da lingue rare alza il prezzo ma diminuisce il numero di committenti, costringendo i traduttori a farsi editor, cioè a proporre i libri agli editori, che spesso sfruttano i finanziamenti dell’Unione Europea o dei singoli Stati. Una cartella corrisponde a 1.800 battute spazi inclusi, cioè una pagina di Word scritta in Garamond in corpo 14 e 2 di interlinea. Un buon ritmo – per un buon traduttore in buona salute e un libro di media difficoltà – è un centinaio di cartelle al mese, il che significa che il suo guadagno sarà di 1.500-1.700 euro lordi che si ridurranno a 1.275-1.445 una volta sottratto il 20 sul 75 per cento di imponibile, come disciplina il diritto d’autore (peraltro: fino a qualche tempo fa i diritti di traduzione duravano vent’anni, oggi solo dieci). Non sono tanti soldi ma è più o meno la paga di un redattore interno, che però deve stare in ufficio e uscire di casa anche quando piove.

Per tradurre un libro di difficoltà e lunghezza medie, quindi, occorrono 3 mesi, a cui si aggiunge una quindicina di giorni per la revisione, che normalmente non viene pagata. Il problema è che per le traduzioni normalmente non sono previsti anticipi, anzi i pagamenti di solito sono a 90 giorni (solo in pochi, tra cui Einaudi e Mondadori, pagano a 60). Prima di vedere i soldi, insomma, passano 6-7 mesi, sempre che in casa editrice si ricordino di avvisare subito l’amministrazione. Le cose possono migliorare per libri molto lunghi, superiori alle 500 pagine, per i quali talvolta è previsto un anticipo o pagamenti intermedi. La dilazione dei pagamenti – non dissimile da quella di ogni altro lavoro da free lance – provoca un fenomeno collaterale: la programmazione è lunghissima. Un traduttore richiesto deve accordarsi con largo anticipo – spesso sa quale libro incomincerà più di un anno dopo – e gli editori devono prenotarlo per tempo. I libri, come è noto, sono oggetti molto lenti e sempre in ritardo: quando escono in libreria, sono vecchi di anni. Ogni nuova tendenza letteraria fotografa un tempo passato.

Tradurre è un mestiere che è cambiato poco nel tempo. Solitudine, libertà e alienazione sono quelli di sempre. La paga, probabilmente, è minore: ma è un guaio che riguarda chiunque. A essersi trasformato è il rapporto con le parole, che grazie ai computer possono essere girate, spostate, cancellate all’infinito, fino a trovare il giro giusto di frase. Ma l’aspetto più nuovo è che le parole non si cercano più nei dizionari, le parole si trovano online. Non bisogna più sfogliare le pagine avanti e indietro mille volte al giorno. Senza vocabolari può capitare di fare errori, anche grossolani: si racconta di una vecchia edizione della Storia della filosofia occidentale di Bertrand Russell che iniziava il capitolo su Charles Darwin, più o meno, con queste parole: «Darwin sosteneva che gli uomini discendessero dalle api». Dove «api» traduceva l’inglese «apes» che, invece, ovviamente vuol dire «scimmie». I traduttori che ho frequentato io – nel Novecento – erano circondati da cento vocabolari, normali, di slang, dei sinonimi e contrari. Loro e le loro scrivanie scomparivano, letteralmente, sotto montagne di carta. Le loro dita e occhi sfogliavano e leggevano, incessantemente, centinaia di volte al giorno. A quei tempi comprare dizionari era un investimento da ammortizzare. Oggi tutto si fa online. Ma i dizionari sono ancora uno strumento fondamentale, come le forbici per un sarto o il martello per un muratore.

Gioia Guerzoni – che come detto vive ad Haifa – usa «molto l’Oxford English Dict Online, Webster, Treccani, il dizionario analogico, e poi tutti quelli di slang». Margherita Carbonaro – che traduce dal tedesco e dal lettone – dice: «Per il tedesco fondamentalmente uso dizionari online, solo di rado di carta, in sostanza, il vecchio Vladimiro Macchi, pubblicato da Sansoni, il cosiddetto “Sansoni grande”, o il Rigutini Bulle, entrambi non più in commercio da parecchio tempo. I preferiti bilingue online sono Zanichelli e Sansoni piccolo. Quanto ai monolingue tedeschi, trovo online praticamente tutto. Ricorro ai cartacei solo per cose particolari, consultandoli in biblioteca. Per il lettone uso dizionari online ma non solo, perché a volte l’edizione cartacea è più completa di quella online. Come dizionari bilingui uso lettone-inglese e lettone-tedesco, perché non esiste un dizionario lettone-italiano sufficientemente ampio». Ilide Carmignani – che traduce dallo spagnolo – dice: «Uso un sacco di dizionari, per la traduzione letteraria più ne hai meglio è. Prima i bilingui, Zanichelli e Garzanti, per vedere le corrispondenze; poi i monolingui spagnoli, Real Academia e Maria Moliner, per approfondire le sfumature di significato e l’uso; i dizionari di italiano, Devoto Oli, Zingarelli, Treccani e Gradit, per controllare bene; i dizionari dei sinonimi, Gabrielli e Zanichelli, se bisogna cambiare qualcosa, per esempio se la parola del bilingue non copre l’accezione che il termine prende nel tuo specifico contesto, perché i campi semantici non corrispondono mai perfettamente fra due lingue; a volte dizionari analogici e delle collocazioni. Tutti online o su disco rigido. Su carta più nulla, tranne raramente un monolingue spagnolo, il Seco, e qualche dizionario di latinoamericani e di slang. Uso anche la rete: Wordreference, Tubabel, Homolaicus per i sinonimi. O semplicemente Google per vedere come è usato un termine o quanto è frequente, o a che immagini rimanda. Senza Internet non si può più lavorare. Ora vorrei provare anche il dizionario combinatorio dell’italiano del prof. Locascio».

I traduttori più noti in Italia, oggi, sono quasi tutte traduttrici. È difficile dire da cosa dipenda: se dalla minore vanità delle donne, dalla maggiore capacità femminile di organizzare il proprio tempo e gestire la solitudine, oppure dal fatto che lavorare in casa rende più facile un sacco di cose. Esistono delle eccezioni, naturalmente. Di seguito, come nelle lapidi dei caduti della Prima guerra mondiale o della Seconda Boera, i nomi in ordine alfabeto di alcuni (ma soprattutto di alcune) tra i maggiori traduttori (traduttrici) italiane. Cliccando si accede ai libri che hanno tradotto in vendita su Amazon. Molti mancano. Non se ne abbiano. Il nostro pensiero è anche per loro.

– Federica Aceto traduce dall’inglese Don DeLillo e Martin Amis, per esempio.

– Maurizia Balmelli, inglese e francese: ancora Martin Amis, e inoltre Emmanuel Carrère, Fred Vargas, Cormac McCarthy, Aleksander Hemon e Ian McEwan.

– Elisabetta Bartuli traduce dall’arabo, anche poesie, tra cui la raccolta Una trilogia palestinese di Mahmud Darwish.

– Susanna Basso traduce dall’inglese: i libri più importanti di Ian McEwan, Julian Barnes, Alice Munro e qualche Paul Auster. Nel 2010 ha scritto un libro sulla traduzione.

– Margherita Botto dal francese: Le benevole di Littel, molta Fred Vargas e l’ultima traduzione de Il rosso e il nero di Stendhal.

– Margherita Carbonaro traduce dal tedesco e lettone, molta Herta Müller, premio Nobel 2009 (ma non Il paese delle prugne verdi) e Altezza reale di Thomas Mann.

– Ilide Carmignani traduce dallo spagnolo, in particolare Luis Sepúlveda, Almudena Grandes e, soprattutto, la candida Eréndira di Gabriel García Márquez e Un certo Lucas di Julio Cortázar. Anche lei ha scritto un libro sulla traduzione.

– Matteo Colombo è il traduttore del Giovane Holden di Salinger, di La vita dopo di Donald Antrim e di molti libri di Chuck Palahniuk.

– Adriana Dell’Orto ha tradotto dall’inglese Joan Didion, Revolutionary road di Richard Yates, Stephen King, D.H. Lawrence, Rudyard Kipling e Irwin Shaw.

– Riccardo Duranti ha tradotto Phil K. Dick, Raymond Carver, George Orwell e Roald Dahl.

– Ottavio Fatica ha tradotto l’ultimo Moby Dick di Hermann Melville, e prima Henry James, Rudyard Kipling, Francis Scott Fitzgerald, Robert Stevenson e Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace.

– Gioia Guerzoni traduce dall’inglese, ma sa tutto di scrittori e fumettisti indiani. Traduce Siri Hustvedt per Einaudi.

– Eva Kampmann, ancora inglese, oltre a danese e norvegese: traduce Marilynne Robinson, Catherine Dunne e Jo Nesbø.

– Tiziana Lo Porto traduce dall’inglese e dal francese, collabora con vari giornali e lavora nell’editoria. Ha tradotto Douglas Coupland e François Bégaudeau. Ha scritto un graphic novel su Zelda Fitzgerald.

Vincenzo Mantovani è uno dei più grandi traduttori italiani. Oltre ai libri più importanti di Philip Roth e di Ernest Hemingway, ad altri di Richard Ford e Kurt Vonnegut, è il traduttore di Va’, metti una sentinella, il romanzo postumo di Harper Lee. (Nonostante questo, è stato vergognosamente dimenticato: in questo elenco è stato aggiunto in seguito)

– Yasmina Melaouah è la traduttrice di Daniel Pennac (che si dice abbia convinto Feltrinelli, l’editore italiano, a concederle diritti sulle vendite), ma anche di Il grande Meaulnes di Alain-Fournier e Bussola di Mathias Enard, vincitore del Goncourt 2015.

– Cristiana Mennella, di nuovo inglese (cosa vuol dire vincere una guerra): Jeff VanderMeer, Donald Antrim, Walter Mosley e Jason Goodwin.

– Anna Nadotti traduce – dall’inglese, ma con predilezioni indiane – Virginia Woolf, Anita Desai, Amitav Ghosh, Suketu Mehta, A.S. Byatt.

– Monica Pareschi traduce Doris Lessing, Mark Haddon, Alice McDermott, Michel Faber.

– Silvia Pareschi vive un po’ negli Stati Uniti, un po’ sul Lago Maggiore. È la traduttrice di Jonathan Franzen, oltre che di E.L. Doctorow, Alice Munro, Corman McCarthy e Nathan Englander.

– Martina Testa è stata direttore editoriale di minimumfax. Ha tradotto David Foster Wallace, Jonathan Lethem, Cormac McCarthy, Kurt Vonnegut, Jennifer Egan, Emma Cline.

– Ada Vigliani traduce dal tedesco, per esempio Schopenhauer, Le affinità elettive di Goethe e L’uomo senza qualità di Musil.

– Claudia Zonghetti traduce dal russo: Anna Politkovskaja, Varlam Salamov e Alexandre Kojève, ma anche classici come l’ultima Anna Karenina di Tolstoj, Vita e destino di Vasilij Grossman e Il maestro e Margherita di Bulgakov

Per ultimo aggiungo mio padre, che si chiamava Marco Papi e ha fatto il traduttore per tutta la vita. Era sempre circondato da montagne di fogli scritti a macchina e rivisti a pennarello nero, ma non vedevo bene, perché la stanza era sempre offuscata dal fumo delle sue sigarette e un po’ anche dall’alcol, come facevano i traduttori della generazione di Luciano Bianciardi. Un gioco che faceva spesso con se stesso era trovare la parola nel dizionario nel minor numero di mosse. Qui ci sono alcuni dei suoi libri che sono ancora in commercio, tra cui John Cheever, Agatha Cristie, Nadine Gordimer, i racconti di Nathaniel Hawtorne, Il paziente inglese di Michael Ondaatje, Joseph Conrad, Colum McCann, Walter Scott, oltre a una caterva di saggi – dalla vita di Stalin alla sessualità dell’antica Cina, che detestava cordialmente. Quella di cui andava più orgoglioso era la sua traduzione dei Dubliners – Gente di Dublino – di James Joyce nell’edizione economica Garzanti. È datata 1976, sono passati quarant’anni. Immagino che i diritti di traduzione siano scaduti. Ne trascrivo qualche riga con l’avvertenza che usano gli editori quando ripubblicano traduzioni di persone morte, di cui non trovano o cercano gli eredi: «Ci si riserva di riconoscere i diritti di traduzione al proprietario che non è stato possibile rintracciare».

Quando mi viene voglia di ricordarlo, leggo l’ultimo paragrafo dell’ultimo racconto, The Dead – I morti. A volte mi capita di riconoscerlo nelle parole e nella punteggiatura, specialmente nella pausa esitante, ma necessaria, che ha posato sull’ultima virgola:

joyce

Non credo che gli sia troppo piaciuto passare tutta la sua vita in casa. Sicuramente gli piaceva non essere costretto a uscire quando pioveva. Ma non se nevicava.