Impressioni di un insegnante neoassunto

Mario Fillioley racconta il suo primo anno da prof delle medie – anzi, "adulto in ricerca" – alle prese con i nuovi approcci esistenziali suggeriti dal ministero

(Dan Honda/Bay Area News Group/TNS)
(Dan Honda/Bay Area News Group/TNS)

Mario Fillioley – insegnante, scrittore, traduttore e blogger del Post – ha raccontato sul sito di IL com’è andato il suo primo anno da insegnante di ruolo in una scuola media. Fillioley ha raccontato con un certo disagio l’insistenza dei molti corsi e seminari a cui ha dovuto partecipare sul nuovo approccio alla didattica che viene insegnato ai professori: quello dell’insegnante come “adulto in ricerca”, che più che spiegare concetti e teorie deve lavorare da intermediario – “facilitatore” nelle parole del ministero – fra gli studenti e la materia. E quindi deve “imparare a imparare”, cioè invogliare gli studenti ad approfondire una certa materia incoraggiando le curiosità e il pensiero creativo. Il guaio, spiega Fillioley, è che «a dodici anni, se ci pensi, più che in ricerca sei un po’ presuntuosetto: quel poco che sai, o che pensi di sapere, ti pare tutto ciò che c’è da sapere, e che Colombo sia partito con tre caravelle da Palos è assodato al punto che googlare Niña, Pinta e Santa Maria è superfluo».

Sto per completare l’anno di prova come insegnante di una scuola pubblica, quindi diciamo che ho fatto più o meno nove mesi dentro un’aula, alle medie. Non sono tanti, per cui non è che abbia titolo per parlare di didattica, però il Miur ha voluto che su questi nove mesi ci riflettessi parecchio: ho riempito questionari on line, documentato le attività fatte in classe, partecipato a corsi di formazione e a due incontri all’ufficio scolastico provinciale, poi dieci ore di osservazioni peer-to-peer tra me e la «tutor accogliente», e vari altri obblighi previsti per i neoassunti della “buona scuola”, quindi vuoi o non vuoi un’idea ho dovuto farmela.

In sintesi, durante l’anno di prova ti viene ripetuto spesso quello che da anni Franco Lorenzoni o Giacomo Stella scrivono nei loro libri: se non sei un adulto in ricerca, la scuola non è il posto che fa per te. Alla scuola non servono detentori di chissà quale sapere, ma «facilitatori», intermediari fra gli studenti e le competenze che dovranno acquisire: in classe porrai delle questioni e assisterai gli studenti nel loro dipanarle. Questa cosa ti esalta, hai la sensazione di essere stato assunto al CNR e quando entri in aula vorresti tanto indossare un camice bianco: guiderai questo gruppo di giovani menti, ti dici, e lo farai tramite una didattica collaborativa, di gruppo, tra pari, abbandonando ciò che credevi di sapere e finendo con lo scoprire che il primo apprendimento è proprio il tuo. Bene, bello. Però a un certo punto ti devi per forza chiedere: ma sono un adulto in ricerca io? Be’, sì, mi sono risposto, è una vita che non ci capisco niente, quindi direi che sono abbastanza in ricerca, e in effetti, come credo accada da sempre a molti disadattati, dentro l’aula mi sento piuttosto a mio agio.

Così la tesi del miur mi è sembrata ragionevole da subito: del resto bastano due ore per rendersi conto che qualunque restaurazione è utopica, che l’insegnante autoritario, dispensatore di lezioni frontali, è improponibile, nessuno può più pensare di farlo, indietro non si torna, e gli studenti di oggi ignorano perfino la possibilità che l’insegnante sia qualcuno da stare a sentire, perché questa presunta autorevolezza è scomparsa dovunque, a cominciare dalla famiglia, guidata più da fratelli maggiori che da genitori veri e propri, e quindi non si capisce per quale motivo dovrebbe sopravvivere a scuola. E allora mettiamoci a collaborare, poniamo questioni e proviamo ad assistere gli studenti nei loro tentativi di dipanarle, che la didattica sia il più «laboratoriale» possibile, come dicono le linee guida, cioè una specie di opuscolo dove le «competenze» che i ragazzi devono acquisire hanno nomi suggestivi come «imparare ad imparare». Perciò io tutte le mattine, per nove mesi, sono entrato in classe e ho cercato di «facilitare» gli studenti nel loro personale percorso di apprendimento, ho congegnato dei «compiti unitari di realtà», piccole prove, cioè, in cui i ragazzi fossero alle prese con un problema pratico, da risolvere trovando soluzioni adatte, verificando l’aderenza dei risultati agli obiettivi iniziali, modificando le strategie. Una cosa stimolante, che mi faceva sentire un adulto in ricerca. Certe volte restavo a bocca aperta: uno dei ragazzi più distratti o meno incline alla classica esposizione orale o scritta, se ne usciva con un’idea svelta, risolutiva. Che bel lavoro, ho pensato in quei momenti. In quei momenti. Quanti? Due, tre in un anno.

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