13 grandi canzoni dei King Crimson

Oggi che Robert Fripp compie settant'anni, sempre sorridendo pochissimo

 

Il 16 maggio 2016 compie settant’anni Robert Fripp, musicista e compositore britannico leggendario per gli appassionati del rock in quanto fondatore e membro principale della band dei King Crimson: ma anche innovatore in molti altri progetti e collaborazioni, tra cui quelle con David Bowie e Brian Eno. Nel suo libro Playlist, a cui il Post spesso attinge, Luca Sofri – peraltro direttore del Post – si dichiarò inadeguato a scrivere dei King Crimson per limitata competenza, e chiese quindi che la scelta delle canzoni fosse fatta da Vittorio Dell’Aiuto, grande esperto della band e autore del blog “Giovani Tromboni” (chiuso da alcuni anni).

King Crimson (1969, Londra, Inghilterra)
(La playlist dei King Crimson è a cura di Vittorio Dell’Aiuto, cultore della materia e titolare del blog Giovani Tromboni).
L’unico gruppo della stagione progressive sopravvissuto fino a oggi senza diventare la propria caricatura da gerontocomio: andati avanti facendo musica nuova ma parente di quella del 1969. In quasi quarant’anni di storia ci sono passati una ventina di musicisti, e il gruppo è stato dichiarato sciolto per sempre almeno tre volte, salvo poi rinascere dalle sue ceneri: in tutto questo l’unico elemento inamovibile è stato un omino inglese del Dorset di nome Robert Fripp, di cui si conosce un’unica foto in cui sorrida.

21st century schizoid man

(In the court of the Crimson King, 1969)
Cominciarono così. Una voce distorta dipinge la visione apocalittica di un futuro dove i poeti muoiono di fame, il napalm stermina innocenti, e l’uomo schizoide del titolo possiede solo quello di cui non ha bisogno: “nothing he’s got he really needs”.
Una versione molto bella e grezza di questo pezzo è su Earthbound, il primo disco live, noto più che altro per la pessima qualità dell’incisione; poi un recente cofanetto della DGM (la casa discografica di Fripp, che sta pubblicando a puntate incisioni di tutte le epoche, per la gioia e il tormento economico dei collezionisti) ne ospita ben dodici versioni dal vivo. Ci siamo capiti.

In the court of the Crimson King
(In the court of the Crimson King, 1969)
“Re Cremisi” dovrebbe essere una definizione poetica di Belzebù, come conferma il famosissimo e angoscioso faccione paonazzo in copertina; ma è diventato impossibile non riferire il nome a Fripp con la sua corte di musicisti. Il primo cortigiano fu Pete Sinfield: scriveva tutti i testi, curava la scenografia e le luci, si dava talvolta da fare al VCS3, uno dei primi sintetizzatori. Dopo la rottura con Fripp lavorò con Emerson, Lake and Palmer, e scrisse anche la versione inglese dei testi della nostra PFM, per la sua fugace avventura americana con l’album Photos of Ghosts.

I talk to the wind
(In the court of the Crimson King, 1969)
Dopo le discese agli inferi tutte bordate di mellotron, sax imbizzarriti e chitarra distorta, una parentesi di arpeggi e flautini eterei: l’altra anima, rarefatta e melodica, del gruppo. Qua ben impersonata dalla voce cristallina di Greg Lake, primo bassista e cantante che lasciò i King Crimson di lì a poco per mettersi con Emerson e Palmer, e prendere qualche chilo di troppo.

Prince Rupert awakes
(Lizard, 1970)
Lizard, un album ricco di influenze jazzistiche grazie alla presenza di ospiti come il pianista Keith Tippett, è occupato per metà dall’omonima (e un po’ datata) suite medievaleggiante, cantata in parte da Jon Anderson degli Yes.
Il nuovo bassista e cantante dei King Crimson fu invece Gordon Haskell, che non ebbe in seguito una carriera all’altezza del suo predecessore Lake: lasciato il gruppo con un codazzo di beghe legali, cadrà nel dimenticatoio per trent’anni di fatiche economiche, per infilare nel 2001 un singolo e un album che andarono a ruba in Inghilterra.

Ladies of the road
(Islands, 1971)
Una canzone abbastanza esplicita sui numerosi incontri femminili di un musicista in tour; non serve un esperto di strumenti musicali per cogliere i doppi sensi di un verso come “just love to feel your Fender”. Nonostante Fripp abbia sempre sottolineato la sua distanza dal blues e forme derivate, questa è l’eccezione che conferma la regola. A tratti sembra “Come Together” dei Beatles, che risuonano anche nell’apertura melodica dell’inciso, ma poi interviene la solita chitarra sghemba a rimettere le cose a posto.

Lark’s tongues in aspic part II
(Lark’s tongues in aspic, 1973)
Nel 1973 i King Crimson rinascono, col primo album della trilogia che alcuni hanno definito di “progressive metal” a causa dell’inasprimento dei suoni. La compagine è rivoluzionata: alla batteria Bill Bruford, transfuga dagli Yes; al basso e voce John Wetton; è arrivato il violino di David Cross, e si è aggiunto anche un percussionista, Jamie Muir.
Il pezzone strumentale che dà il titolo al disco (de gustibus: lingue d’allodola in gelatina) è un altro classico durevole dei King Crimson. Una “Lark’s tongues in aspic part III” è presente sul disco del 1984, una “part IV”, a sua volta suddivisa in quattro sezioni, sul disco del 2000.

Starless
(Red, 1974)
Nel consueto vortice di defezioni, i King Crimson rimangono in tre. E producono un album teso, inizialmente poco apprezzato da pubblico e critica, ma rivelatosi nel tempo tra i più influenti. “Starless” riprende il titolo di un pezzo dell’album precedente, Starless and Bible Black, una citazione da Dylan Thomas che significa in sintesi “buio pesto”.
Da molti è ritenuto, non a torto, il brano più bello dei King Crimson: una melodia struggente, Wetton che canta riflessioni amare sul “cruel twisted smile” di certi vecchi amici, e quando la canzone potrebbe essere finita, partono sette minuti di crescendo mozzafiato, con Fripp a esasperare la tensione tramite un incredibile assolo di due note ribattute. Brividi, ed ennesimo sipario.

Elephant talk
(Discipline, 1981)
Nel 1981 i King Crimson tornano a sorpresa, con l’album Discipline (in
realtà questo doveva essere il nome
del nuovo gruppo). Ancora Fripp e Bruford, più Tony Levin – poi de-
voto musicista di Peter Gabriel –
che suona lo stick, un nuovo stru-
mento a metà tra basso e chitarra; e soprattutto Adrian Belew, prove-
niente dal giro di Frank Zappa e
poi collaboratore di Bowie e Talking Heads. In “Elephant Talk”,
un elenco alfabetico dalla A alla E 289 delle forme di comunicazione orale, Belew non solo fa “parlare” la chitarra come tanti altri: la fa letteralmente barrire.

Thela Hun Ginjeet
(Discipline, 1981)
Adrian Belew sta camminando per le strade di Londra, prendendo appunti vocali sul suo registratore per una canzone sulla violenza urbana. All’improvviso si trova di fronte due rapinatori armati. Uno gli strappa il registratore e preme play: si sente Belew che parla di pistole e posti pericolosi (“this is a dangerous place, this is a dangerous place!”). I due si allarmano, pensano che sia un poliziotto, lui si avvita in una spiegazione senza fine sul fatto che in effetti è solo un musicista, e alla fine in qualche modo li convince. Tremante gira l’angolo, e si imbatte in due poliziotti oltremodo sospettosi a cui riesce con qualche difficoltà a spiegare la stessa cosa. Arriva finalmente allo studio, dove quasi isterico racconta agli altri l’accaduto; l’ineffabile Fripp, a sua insaputa, registra il tutto. Il risultato di questo gioco di specchi sonori è un pezzo frenetico e ansiogeno. “Thela Hun Ginjeet” è l’anagramma di “Heat in the Jungle”.

Matte Kudasai
(Discipline, 1981)
“Matte Kudasai” non è un anagramma, ma l’equivalente giapponese di “attendere prego”. L’attesa beckettiana è quella di una donna alla finestra, mentre piove. Forse scrive lunghe lettere senza risposta, di sicuro dorme su una sedia, “in her sad America”. Senso di sospensione e malinconia anche nella musica, con chitarre come gabbiani in lontananza.

Neal and Jack and me
(Beat, 1982)
Il secondo album della trilogia degli anni ’80 ha per titolo Beat, in probabile omaggio all’omonima generazione degli anni ’50. A fare vita on the road non sono più gli scrittori ma i musicisti: qua in una Parigi alle quattro del mattino Belew, insonne, tira in ballo una Studebaker Coupé del 1952, in compagnia di Neal (Cassady) e Jack (Kerouac).

Three of a perfect pair
(Three of a perfect pair, 1984)
Lei è suscettibile, lui è impossibile; lui è contraddittorio, lei è ciclotimica; un pizzico di schizofrenia li rende una perfetta coppia. Di tre persone.

Dinosaur
(THRAK, 1995)
Cosa ne è dell’uomo schizoide del Ventunesimo secolo, un quarto di secolo dopo?
Si guarda indietro, prende atto della sua insipienza e si stupisce di non essere estinto. Bellissimo il suo urlo: “sono un dinosauro, qualcuno sta scavando le mie ossa”.