«Era il più grande»

Alessandro Baricco su Umberto Eco e lo sport che praticava come nessun altro: capire il mondo, fare l'intellettuale

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Domenica 21 febbraio Alessandro Baricco ha dedicato su Repubblica un lungo articolo a Umberto Eco, l’intellettuale e scrittore morto nella notte tra venerdì e sabato a 84 anni.

Semplifico: era il più grande. Lo era in uno sport molto particolare, che a molti può sembrare un lusso noioso come il Polo, e che invece può essere incantevole, e lo dico senza vergogna: fare gli intellettuali. Forse ad alcuni ne sono sfuggite le regole, quindi le ricordo: si vince quando si comprende, racconta o nomina il mondo. Fine. Periodicamente, in quello sport arriva qualcuno che non si limita a giocare da dio: quelli entrano in campo, giocano, e quando escono, il campo non è più lo stesso. Non nel senso che lo hanno rovinato: nel senso che nessuno aveva pensato a usarlo in quel modo, nessuno aveva visto prima quelle traiettorie, quella velocità, quella tattica, quella leggerezza, quella precisione.

Tornano negli spogliatoi, e si lasciano dietro uno sport che non è più lo stesso, campioni che sono diventati dinosauri in un pomeriggio, e praterie di gioco da inventare per chi ne avrà il talento. Sono fenomeni, e averli visti giocare va considerato, sempre e comunque, un privilegio. Eco era uno di loro, e se penso al pezzo di storia in cui sono cresciuto, passando dallo stupore frenetico del ventenne alla meraviglia assorta del cinquantenne, me ne vengono forse in mentre altri due o tre, grandi come lui: ma nessuno che fosse nato qui.
Naturalmente bisognerebbe riuscire a spiegare quale fu la sua rivoluzione, e farlo in un modo che tutti lo possano comprendere. Un tipico esercizio in cui lui sarebbe stato bravissimo. Potrei provarci così: capì che il cuore del mondo non stava immobile in un tabernacolo sorvegliato dai sacerdoti del sapere: comprese che era nomade, capace di spostarsi nei posti più assurdi, di nascondersi nel dettaglio, di espandersi in archi di tempo colossali, di frequentare qualsiasi bellezza, di battere dentro a un cassonetto e di sparire quando voleva. Non fu il solo: ma mentre altri ne uscirono sgomenti, o storditi, o increduli, lui trovò la cosa naturale, ovvia, piuttosto funzionale e, diciamolo pure, discretamente divertente. Così insegnò che il sapere non era solo un dovere, ma anche un piacere: e che era riservato a gente in cui forza e leggerezza, memoria e fantasia, lavorassero una dentro l’altra e non una contro l’altra: gente con il coraggio, la determinazione e la follia degli esploratori. Non si limitò a spiegarlo, ne fece una prassi. È quello che ci ha lasciato: più che una teoria, una serie di esempi, di gesti, di comportamenti, di colpi, di mosse. Era il suo modo di giocare. Una sua certa idea di mondo, se posso usare questa frase.

Valga, per tutti, l’esempio del Nome della rosa. Forse lo sopravvaluto, ma, come ho già avuto modo altrove di dire, io penso che sia il libro che ha inaugurato una nuova stagione dei libri: quella in cui un romanzo non è tanto figlio di un incesto tra consanguinei, cioè l’erede stretto di una dinastia, quella letteraria: ma è lo spazio in cui narrazioni, abilità, tradizioni e saperi completamente diversi vanno ad abitare insieme: una sorta di centro magnetico capace di raccogliere pezzi di mondo esiliati da ogni parte. Di letterario, nel Nome della Rosa, c’era giusto la laccatura, l’atmosfera, il sapore di fondo: tutto il resto era una sorta di rave di saperi e bellezze che si erano andati lì a incontrare, per ragioni misteriose. Poteva essere una chicca da cattedratico brillante, e bon. Uno di quei libri che poi si tengono sul tavolo basso, per fare bella figura. Invece intuiva un mondo che era già il nuovo modo, sotto la pelle di quello vecchio: finì nelle tasche di tutto il pianeta, e ancora è lì, e da lì non ha nessuna intenzione di spostarsi.

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