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  • Domenica 6 settembre 2015

La parità e il rugby in Sudafrica

La selezione dei giocatori per i mondiali che stanno per cominciare ha rinnovato i dubbi che alcuni postumi dell'apartheid sopravvivano

di Pietro Cabrio – @piercab

I giocatori della nazione sudafricana di rugby cantano l'inno prima della partita contro il Galles dello scorso novembre, a Cardiff (Steve Haag/Gallo Images/Getty Images)
I giocatori della nazione sudafricana di rugby cantano l'inno prima della partita contro il Galles dello scorso novembre, a Cardiff (Steve Haag/Gallo Images/Getty Images)

Nel 1992, per cambiare radicalmente il modo in cui veniva gestito il movimento rugbistico nazionale e per garantire un’equa rappresentanza dell’intera popolazione, fu creata un’unica nuova federazione nazionale sudafricana: la South African Rugby Union, conosciuta anche come SARU. Due anni prima Nelson Mandela era stato liberato dopo ventisette anni di prigionia e nel 1994 sarebbe stato eletto presidente. L’apartheid, il regime di segregazione razziale istituito nella seconda metà degli anni Quaranta dai governi di etnia bianca, fu abbandonato definitivamente negli anni successivi. Durante il lungo periodo dell’Apartheid il rugby sudafricano – sport seguitissimo e in cui il Sudafrica ha una squadra storicamente molto forte – era stato sempre dominato da dirigenti e giocatori bianchi, per i quali esisteva una federazione riservata, molto più ricca e potente di quelle degli atleti neri: un famoso episodio del ruolo del rugby nella storia sudafricana è stato raccontato nel film Invictus di Clint Eastwood del 2009.

Dall’anno della sua fondazione, la SARU si è quindi sempre impegnata a stabilire giuste quote di rappresentanza, sia nei club che nelle nazionali giovanili, delle etnie che costituiscono la popolazione sudafricana e a verificare che queste quote venissero sempre rispettate. Ma dopo decenni di progressi politici e sportivi, come la vittoria della Coppa del Mondo nel 1995 che contribuì all’immagine di un Sudafrica finalmente avviato verso la fine della segregazione razziale, una tesi presentata da Jacques du Toit alla facoltà di scienze sportive dell’Università di Cape Town nel 2014 ha fatto riemergere il problema dell’equa rappresentanza nel rugby sudafricano. Vivaci polemiche sono nate in particolar modo dopo la pubblicazione, lo scorso 28 agosto, della lista dei trentuno giocatori convocati nella nazionale sudafricana per la Coppa del Mondo, lista composta da solo nove giocatori non bianchi e per la quale un piccolo partito – L’Agency for New Agenda – si è rivolto alla corte di Città del Capo chiedendo che vengano ritirati i passaporti ai giocatori in modo da impedire la partecipazione della nazionale alla Coppa del Mondo in Inghilterra. Tuttavia, le quote minime previste dalla SARU (7 giocatori non bianchi su 31) sono state rispettate e i giocatori non bianchi hanno ribadito il loro sostegno all’allenatore della nazionale Heyneke Meyer.

In Sudafrica esiste un modo particolare per denominare le varie etnie non bianche: vengono definite “black” le persone con origini africane (il 79% della popolazione secondo l’ultimo censimento) e “coloured” le persone di etnia mista (il 9%), in genere con pelle più chiara e con antenati europei, asiatici e africani. I bianchi sono il 9% (erano il 16% nel 1980). La tesi di du Toit (presentata con il titolo “Playing time of professional senior rugby players across all levels of South African rugby, 2007-2012: implications for transformation”) si concentra sul periodo che va dal 2007 al 2012 e riguarda il tempo effettivo giocato dai tre diversi gruppi etnici in tutti i livelli agonistici nazionali. Secondo lo studio, i bianchi sono il gruppo etnico più numeroso fra i rugbisti sudafricani, seguiti dai giocatori di colore e da quelli neri. Il totale dei minuti giocati dai bianchi però è a sua volta sproporzionato anche rispetto a questa distribuzione: i bianchi giocano più di tutti e gli altri stanno molto tempo in panchina. La percentuale di minuti giocati da giocatori bianchi è aumentata in tutte le competizioni più importanti del paese negli ultimi sei anni. In nazionale maggiore, il livello più alto a cui un rugbista sudafricano può aspirare, i giocatori bianchi hanno giocato più del previsto mentre i neri sono stati sempre sottorappresentati.

Nel periodo preso in considerazione da du Toit non ci sono stati miglioramenti rispetto a questi squilibri. Ciò significa che le politiche della SARU, che negli anni ha cercato di favorire l’accesso alle strutture ai ragazzi neri e di colore, per i quali ha anche riservato delle quote di rappresentanza obbligatorie in tutte le categorie giovanili, non hanno ancora portato ad alcun cambiamento. Nelle zone povere, isolate e mal servite del paese, abitate soprattutto dai neri, la percentuale di ragazzi che pratica rugby a livello agonistico rimane minima.
I più critici nei confronti della SARU e della politica sudafricana associano i dati forniti dalla tesi di du Toit ai preoccupanti tassi di disoccupazione e di povertà fra la popolazione nera e di colore e sostengono che nel paese persiste ancora una forma di segregazione dove i bianchi continuano ad occupare le posizioni più importanti all’interno della società e dei suoi contesti più rilevanti. Quelli che invece non danno importanza allo studio sostengono che i giocatori bianchi sono molto più numerosi di quelli neri e di colore semplicemente perchè la tradizione rugbistica è più diffusa fra i bianchi ed è passato ancora troppo poco tempo dalla fine dell’aparthied perchè si possa vedere un sistema egualitario: come si dimostrerebbe invece con l’esempio del calcio, molto più praticato dagli atleti neri.