La filosofia di “Metal Gear Solid”

Un po' di storie su una delle serie di videogiochi più popolari al mondo, di cui è appena uscito il quinto capitolo

Fonte immagine: Konami
Fonte immagine: Konami

Il primo settembre è uscito “Metal Gear Solid V: The Phantom Pain”, l’ultimo videogioco della serie Metal Gear, una serie molto famosa uscita per la prima volta nel 1987. Il primo Metal Gear è considerato il primo videogioco del genere “stealth game”, caratterizzato dall’obiettivo di nascondersi e sfuggire ai nemici, anziché affrontarli sempre frontalmente, per passare al livello successivo. Fino al 1987, infatti, i giochi d’azione erano molto semplici, in larga parte per limiti tecnici delle consolle che li gestivano, per cui spesso l’obiettivo era fare più danni possibile sparando a tutti e tutto.

Paul Engelhard ha raccontato su Prismo la (tanta) filosofia dietro il gioco e le idee del suo creatore, Hideo Kojima. In tutti i videogiochi della serie Metal Gear – il più famoso è stato probabilmente il primo “Metal Gear Solid”, uscito nel 1998, che vendette milioni di copie – l’obiettivo è impedire che venga usata un’arma di distruzione di massa (spesso nucleare): e indipendentemente da quanto cattivo sia l’antagonista di turno, il vero cattivo da sconfiggere è l’arma stessa. Kojima costringe chi gioca a Metal Gear Solid a essere più riflessivo e a fare attenzione a tutte le cose cose succedono nel gioco, comprese le conversazioni.

Con l’arrivo di Metal Gear sugli scaffali dei negozi si assiste dunque a una rivoluzione nell’immaginario videoludico, che fin dagli albori aveva pressoché sempre tradotto lo spirito competitivo del mezzo nell’utilizzo indiscriminato di forza letale e che, pertanto, aveva eretto attorno a sé una gabbia narrativa dalla quale nessuno aveva mai cercato di sfuggire. L’adozione di meccaniche antitetiche rispetto agli standard consente invece a Kojima di rivoluzionare il gameplay e, con esso, la narrativa. Innanzitutto, il ritmo più lento del gioco gli permette di creare un background più complesso e, mentre fino ad allora si considerava “salva la principessa rapita da una tartaruga gigante” una trama, grazie al taglio strategico scelto in Metal Gear (in cui le conversazioni con gli NPC assumono un’importanza pari a quella dell’infiltrazione stessa) ora è possibile affrontare tematiche ambiziose quali la dipendenza dalle fonti energetiche fossili, la concezione politica di Stato o la proliferazione nucleare.

Inoltre, nel momento stesso in cui il campo di battaglia cessa di essere un terreno arato da bombe dove l’unica interazione col mondo esterno passa attraverso la canna del proprio fucile, diventa automatico per il giocatore interrogarsi sulla natura delle proprie azioni, così come su quella dei “cattivi” designati. Se con gli occhi del 2015 può sembrare poco, pensate alla differenza che passa tra questo approccio e quello di – disclaimer: è un esempio paradossale –Super Mario, in cui la principessa Peach non può essere salvata tramite una negoziazione, bensì solo compiendo un’ecatombe di funghetti, fiori e testuggini, perché Shigeru Miyamoto ha previsto una sola meccanica di avanzamento di livello. Un’unilateralità di mezzi, questa, che induce il giocatore a ignorare la bontà dei mezzi usati e a osservare esclusivamente il fine, che, a sua volta, è ritenuto ipso facto “buono”; poco importa quindi se Peach è in realtà un’aristocratica sanguinaria à la Elizabeth Bathory, o se Bowser è un difensore dei diritti delle tartarughe: non lo sapremo mai, né ci interesserà scoprirlo.

(leggi l’articolo per intero su Prismo