Tre domande e risposte sul crollo delle borse

Da anni si dice che la Cina prima o poi avrebbe rallentato: perché questo panico? E cosa può fare il Partito Comunista, cioè il governo?

di Chico Harlan – Washington Post

foto AP
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La Cina ha la seconda economia più grande del mondo e negli anni recenti è stata la principale responsabile della crescita economica globale. Questo ruolo sta iniziando a cambiare e lo sta facendo bruscamente. Oggi sui mercati economici la Cina è vista più come un rischio che una garanzia, e dal suo mercato finanziario questa sensazione ha contagiato le borse di Asia, Europa e America.

Apparentemente, gli investitori hanno deciso tutti insieme che la strategia della Cina per la crescita economica – basata principalmente su investimenti e infrastrutture – sta arrivando alla fine della corsa, anche se i dati ufficiali mostrano che la crescita dell’economia cinese sta solo gradualmente rallentando. Nel frattempo, gli sforzi un po’ scombinati del governo cinese di stabilizzare i mercati finanziari hanno fatto emergere nuove domande sulla capacità del Partito Comunista di gestire la situazione. Mettete insieme tutto questo – i dubbi sulla crescita e sulle possibilità di governare la situazione – e otterrete il caos globale.

Ecco alcune domande e risposte semplici per capire cosa sta succedendo.

Sappiamo da anni che la Cina prima o poi avrebbe rallentato. Perché questo panico?
Vale la pena innanzitutto enfatizzare quanto è diventata essenziale la Cina per l’economia globale. Ha il più grande settore manifatturiero al mondo, è il più grande commerciante di merci e detentore di riserve straniere. Nel corso di un quarto secolo, l’economia della Cina è cresciuta in media del 10 per cento ogni anno: e lo ha fatto anche in tempi recenti, mentre altre economie sviluppate soffrivano. Grazie a una dieta pesante a base di petrolio, carbone e acciaio, la Cina ha occupato – e consumato – una fetta sempre più importante dell’economia globale.

L’economia cinese però è comunque rimasta un esperimento: un mercato non così libero dominato da aziende di proprietà dello Stato e guidato da un partito che vede la crescita come uno strumento politico. Nessuno se la prenderà mai con la classe dirigente di un paese, si pensa, finché il tasso di crescita di quel paese è il migliore del mondo. Oggi emerge con molta più forza il dubbio che la crescita economica cinese sia stata sostenuta da pratiche e comportamenti non sani, e in ultima istanza corrosivi.

L’ascesa della Cina è stata innescata da grandi imprese di costruzioni edili che hanno agito praticamente senza concorrenza. Come ha fatto notare il mio collega Simon Denyer, molte di quelle urbanizzazioni – specialmente quelle che hanno di fatto costruito da zero nuove città, sulla base dell’aspettativa di una creazione infinita di nuovi ricchi – oggi sembrano operazioni non proprio sagge.

La cosa forse ancora più preoccupante è che in questi anni in Cina è esploso il debito, e che sono proprio queste società di proprietà del governo – che hanno fatto credito facilmente per molto tempo – a sopportarne gran parte del peso. In un documento di qualche mese fa il McKinsey Global Institute ha fatto notare che il debito cinese si è quasi quadruplicato dal 2007, soprattutto a causa del boom del mercato immobiliare. Anche i governi delle amministrazioni locali hanno tirato avanti con i soldi guadagnati vendendo terreni. Solo le costruzioni di nuove case in Cina valgono il 15 per cento del PIL.

Alcuni economisti sostengono che, in particolare a partire dalle crisi finanziarie del 2008 e 2009, la Cina ha usato del “cattivo debito” per creare una crescita insostenibile. In altre parole il suo 7,4 per cento di crescita ottenuto nel 2014 sarebbe molto differente dal 10,1 per cento di crescita nel 2004, per fare un esempio. E questa è la ragione del rallentamento, in sostanza.

Ma perché il mercato finanziario cinese reagisce solo adesso?
Chiariamo un momento che la borsa e la cosidetta “economia reale” non si muovono sempre di pari passo, in particolare non in Cina. Fino al 2013 i maggiori indici di borsa cinesi erano fra quelli che ottenevano i peggiori risultati, il che ha poco senso: così come ha poco senso quello che è successo dopo.

Più o meno un anno fa il mercato delle azioni in Cina ha cominciato a crescere molto velocemente. Lo Shanghai Composite Index, il principale indice della borsa di Shanghai, è più che raddoppiato. Molti cinesi hanno investimenti in azioni: la maggior parte di loro sono investitori poco esperti, padri di famiglia più che gestori di grandi patrimoni. Le azioni fino pochi mesi fa sembravano uno dei pochi buoni investimenti rimasti in Cina, in particolare visto che il mercato immobiliare stava rallentando. Per capire quanto la situazione fosse strana, basta guardare all’enorme crescita dei margini di credito in Cina: molte persone prendevano soldi in prestito usando come garanzia il loro portafoglio azionario.

Si definisce rapporto “price-to-earning” il rapporto tra il prezzo di mercato di un’azione e i guadagni che si possono ricavare da quell’azione in un anno in termini di utili aziendali, quindi senza considerare la plusvalenza che si guadagna vendendo l’azione a un prezzo diverso da quello a cui la si è comprata. Nella borsa di Shenzen in media una società aveva un rapporto price-to-earning vicino al 70 a 1: significa che le società erano valutate molto ma molto di più di quanto realmente potessero fruttare – nella borsa americana in media lo stesso tipo di rapporto era di 16 a 1 – e quindi che in Cina si compravano azioni con poca o nessuna coscienza di come le imprese stessero realmente andando.

Quello che trainava questa corsa al mercato azionario era, in parte, la convinzione che un rallentamento dell’economia avrebbe aiutato il mercato finanziario, perché avrebbe costretto il governo a intervenire con nuovi stimoli, tenendo bassi i tassi di interesse e garantendo liquidità alle banche. Patrick Chovanec, un analista del Silvercrest Asset Management, ha detto: «Ogni volta che venivano annunciate delle cattive notizie riguardo l’economia cinese, queste si traducevano in una crescita del mercato azionario cinese. C’era questa aspettativa distorta: ci si aspettava stimoli di crescita fiscali e al mercato del credito. Delle cattive notizie finivano per diventare delle buone notizie. La gente continuava a raccontarsi delle favole, come quando ci fu la bolla delle dotcom [quella che coinvolse negli Stati Uniti le prime società digitali]: ‘Il governo interverrà mettendo più soldi nell’economia, specialmente quando le cose andranno male’».

Questa aspettativa ovviamente ha finito per colpire proprio chi la dava più per scontata. Il mercato è cresciuto troppo e ha mostrato quanto fosse drammaticamente distorta la visione della reale situazione economica cinese. A partire da metà giugno il principale indice di Shanghai ha perso il 40 per cento, cancellando tutto ciò che aveva guadagnato dall’inizio del 2015. Molti esperti sostengono che ci saranno altre perdite nelle prossime settimane. Il governo ha ancora molto potere per influenzare l’economia con nuovi stimoli, ma per il momento lo ha usato poco.

Perché il governo ha così tanta difficoltà ad arginare il crollo?
La ragione principale è che il governo cinese – anche il governo cinese – non può fare tutto. Quando ci sono stati i primi segni del disastro imminente, a luglio, il governo ha promesso di intervenire per salvare la situazione: ha comprato azioni, ha interrotto la quotazione di nuove società in borsa e ha ordinato a coloro che detenevano i maggiori portafogli azionari di non vendere. Queste misure hanno funzionato, per un po’.

Ma durante gli ultimi crolli di agosto il governo non è intervenuto. Il che è notevole soprattutto perché il collasso della borsa di Shanghai ha coinciso con la decisione del governo di svalutare lo yuan. Uno yuan più debole ha reso ancora più complicata la situazione finanziaria di quelle società cinesi che avevano contratto dei debiti in dollari. «Il mondo sta cominciando a rendersi conto che la Cina non è nemmeno lontanamente competente quanto si credeva, specialmente nel settore economico», ha detto Fraser Howie, autore di “Red Capitalism: The Fragile Financial Foundation of China’s Extraordinary Rise”, al Wall Street Journal .

Nick Lardy, un economista al Peterson Institute for International Economics, ha detto che la Cina ha sempre sostenuto il mercato azionario, tanto da creare tra gli investitori l’aspettativa che continuasse a fare altrettanto: «Sono intervenuti nel passato con alcuni comportamenti che hanno portato gli investitori a pensare che il governo potesse influenzare il prezzo delle azioni. E a me sembra, molto semplicemente, che non ci siano modi per convincere davvero degli investitori di questo, perché non si può continuare a trainare il mercato per sempre».

© Washington Post 2015