Le terapie per alcune forme di cancro al seno sono troppo invasive?

Una nuova ampia ricerca dice che le operazioni per "carcinoma duttale in situ" – cos'è? – non riducono le probabilità di morire

Analisi di alcune mammografie (AP Photo/Damian Dovarganes)
Analisi di alcune mammografie (AP Photo/Damian Dovarganes)

Una forma di cancro al seno che coinvolge i dotti galattofori (i canali dove passa il latte nella mammella) e che è considerata meno grave delle altre potrebbe essere curata in modi meno invasivi degli attuali, dice una nuova ampia ricerca scientifica basata sullo studio di oltre 100mila casi di tumore negli ultimi 20 anni. I risultati dell’indagine sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Journal of the American Medical Association (JAMA) Oncology e dicono che le donne operate per rimuovere il carcinoma duttale in situ (DCIS) non hanno meno probabilità di morire di cancro al seno rispetto alla media complessiva delle donne. Lo studio ha inoltre messo in evidenza che in certi casi le probabilità erano più alte in alcune pazienti, soprattutto in presenza di trattamenti indirizzati verso la mammella sinistra.

I risultati della ricerca stanno facendo discutere perché riguardano un tema molto delicato in ambito medico, circa la corretta definizione di DCIS. Questa condizione viene di solito definita come una “precancerosi” e un tumore allo stadio zero, quindi a basso rischio, ma potenzialmente dannoso nel caso di una sua evoluzione. Semplificando, con DCIS si indica la presenza di cellule cancerogene atipiche nei canali che portano il latte all’interno della mammella: la parola “in situ” indica che quel tipo di cellule è confinato alla zona interessata e che non si è infiltrato in altri tessuti diventando quindi più pericoloso. Per alcuni oncologi si tratta a tutti gli effetti di un tumore, per altri è un precursore del cancro, mentre per altri ancora è un fattore di rischio. In molti casi, i tumori in situ restano dove sono e non coinvolgono altri tessuti.

Negli Stati Uniti circa il 25 per cento di tutte le diagnosi di tumori al seno riguarda il DCIS e la percentuale è in aumento, soprattutto grazie alla maggiore precisione dei macchinari per effettuare le mammografie, al fatto che sono eseguiti screening su un’ampia porzione della popolazione e al fatto che l’aspettativa di vita è aumentata. Quando viene identificato il DCIS, la persona interessata viene di solito sottoposta a un ciclo di radioterapia e a una tumorectomia (l’asportazione di un grumo di mammella contenente il tumore) o a una mastectomia (la rimozione integrale della mammella, a volte di entrambe).

Stando ai risultati pubblicati su JAMA, e basati su una analisi statistica sui dati raccolti sulla storia clinica di circa 100mila pazienti negli Stati Uniti per 20 anni, questo tipo di trattamenti invasivi non porta necessariamente a un diverso tasso di mortalità rispetto alle donne che non hanno ricevuto una diagnosi o un trattamento per DCIS. La possibilità di morire di cancro al seno per le persone trattate per DCIS è risultata essere pari al 3,3 per cento nei due decenni dopo il trattamento, un tasso simile a quello delle donne senza una diagnosi di DCIS o non sottoposte a particolari terapie. Il tasso di rischio è risultato essere più alto solo per le donne nere e per quelle con una diagnosi di DCIS ricevuta prima dei 35 anni di età.

Laura Esserman, della University of California (San Francisco), ha accompagnato lo studio pubblicato da JAMA con un editoriale in cui scrive che “considerato il basso rischio di mortalità del cancro al seno, dovremmo smettere di dire alle donne che il DCIS è un’emergenza e che dovrebbero programmare un’operazione chirurgica entro due settimane dalla diagnosi”. Esserman scrive anche che “buona parte dei DCIS dovrebbero essere considerati un ‘fattore di rischio’ per un cancro invasivo al seno e un’opportunità per fare prevenzione mirata”.

Il tema di una corretta definizione del DCIS continua comunque a essere aperto, anche perché una sua catalogazione univoca potrebbe essere controproducente: ogni paziente con le proprie caratteristiche fisiche e un determinato patrimonio genetico è una storia a sé, e di conseguenza può reagire diversamente alle terapie o non averne necessariamente bisogno. Le cose, inoltre, si complicano se si leggono altri passaggi della ricerca pubblicata su JAMA dove i ricercatori riconoscono comunque l’importanza di trattare il DCIS per ridurre il rischio di ritrovarsi con forme più invasive di cancro al seno:

Solo una frazione delle lesioni da DCIS trattate evolvono in forme invasive di cancro al seno, ma in mancanza di un trattamento il rischio di cancro invasivo è molto più alto. Inoltre, il tasso di mortalità per cancro al seno nelle donne con DCIS aumenta notevolmente nel caso in cui si sviluppino recidive di tipo invasivo.

Benché lo studio abbia preso in esame un numero considerevole di pazienti, secondo diversi esperti non può costituire da solo una prova definitiva circa l’utilità o meno dei trattamenti invasivi nel caso di DCIS. Otis W. Brawley, responsabile medico dell’American Cancer Society, ha detto che prima di abbandonare o rivedere gli attuali protocolli dovrà essere eseguito un test clinico con pazienti con DCIS da sottoporre a mastectomia, tumorectomia o a nessun trattamento, in modo da mettere in evidenza se gli attuali sistemi siano effettivamente non necessari per la maggior parte delle pazienti. Brawley ha comunque ammesso che i trattamenti portati avanti fino a ora sono stati eccessivi: “In medicina abbiamo questa tendenza a diventare molto entusiasti di una nuova tecnica e a utilizzarla più del dovuto: questo è successo nel caso del DCIS”.