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Guido Crainz auspica su Repubblica che il governo Renzi ritrovi presto “la capacità di rinnovare” e torni a rottamare come un tempo

(ANSA/ SIMONE VENEZIA)
(ANSA/ SIMONE VENEZIA)

Lo storico e docente universitario Guido Crainz scrive oggi su Repubblica – allacciandosi a una discussione in corso da giorni sul quotidiano tra Giorgio Napolitano ed Eugenio Scalfari – della situazione del governo Renzi, sostenendo che ha fatto dei “passi importanti” ma ha perso spinta e forza quando ha smesso di fare strappi e “rottamare un generale modo di essere del Palazzo, non solo di alcuni vecchi dirigenti del proprio partito”.

La discussione fra Giorgio Napolitano ed Eugenio Scalfari sulle riforme istituzionali ha fatto emergere in modo limpido due opposte posizioni, ciascuna con proprie ragioni ed argomentazioni, ed è un gran bene che vi sia stata. Così spesso non è, infatti, nello scontro fra le forze politiche e all’interno di esse, dove tendono a prevalere argomentazioni e opposizioni pretestuose (ben rappresentate dal mezzo milione di emendamenti dell’ideatore del Porcellum). E dove pesa la composizione del “Parlamento ingovernabile” espresso dal voto del 2013, che vide tre forze incompatibili fra loro attestarsi ciascuna attorno al 25%. Un’impasse pesante, frutto anche del profilo e della campagna elettorale povera di contenuti del Pd di Bersani: vincitore annunciato, nel crollo del berlusconismo, ma incapace di raccogliere la radicale richiesta di rinnovamento della politica che veniva dal Paese (e che confluì nell’inaspettato trionfo di Beppe Grillo). Dopo le elezioni avvenne anche di peggio e uscimmo da quel naufragio solo grazie al grande senso delle istituzioni di Giorgio Napolitano, che vincolò il suo impegno alla realizzazione delle riforme: vi fu così la breve esperienza di Enrico Letta e iniziò poi il governo Renzi.

L’esito attuale del percorso ha certo dei limiti ma è difficile negare che passi importanti siano stati fatti: in primo luogo con la legge elettorale, venuta dopo una lunga e colpevole accettazione del Porcellum che è stata rotta solo dalla Consulta. E poi con l’avviato superamento del bicameralismo paritario, di cui sono cadute da tempo le ragioni originarie. Esso fu introdotto infatti in un Paese appena uscito del fascismo e già investito dalle lacerazioni della guerra fredda, e nel quale l’esito delle elezioni appariva incertissimo. Di qui l’estrema attenzione, in particolare della Dc di De Gasperi, a garanzie istituzionali e contrappesi, e fra esse anche una Seconda Camera che fu definita progressivamente: la prima formulazione approvata da una sottocommissione della Costituente affidava infatti la sua elezione ai Comuni e dalle Regioni. Venne poi il testo definitivo della Carta, e per render più efficace il contrappeso fu prevista una maggior durata del Senato rispetto all’altro ramo del Parlamento: passata la paura del 1948 questo aspetto apparve inutile e fu disatteso (con lo scioglimento anticipato del Senato in concomitanza con quello della Camera, prima, e poi cancellando quella differenza).
Non vi è dunque nulla di immutabile in quella formulazione: l’esigenza di un suo superamento era avvertita ormai da tempo, come sia Napolitano che Scalfari hanno ricordato, e la modifica costituzionale è stata approvata in prima lettura anche da una parte di coloro che oggi la definiscono liberticida. Ora però le tempeste si stanno addensando, e c’è da chiedersi perché l’ostracismo della minoranza del Pd abbia più forza che in passato. Perché possa dare un contributo sempre più decisivo al tentativo delle opposizioni di affondare la legislatura in una palude o di anticiparne la fine. C’è da chiedersi, in altri termini, perché l’iniziativa riformatrice stia segnando il passo, e c’è sullo sfondo un problema generale.

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