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  • Domenica 19 luglio 2015

La soap opera più seguita in Palestina è sugli ebrei

Si chiama “Haret el Yahud”, è egiziana ed è stata sia lodata che criticata perché racconta gli ebrei come personaggi positivi

di William Booth e Sufian Taha – Washington Post

Alcuni palestinesi si sono radunati dopo mezzanotte in una piccola fattoria vicino a Betlemme, in Cisgiordania, per crogiolarsi in un nuovo piacere: guardare una soap opera sugli ebrei. I ragazzi palestinesi si mettono di fronte al televisore, qualcuno chiede il silenzio, altri sorseggiano limonata o sgranocchiano dolci. Poi parte la sigla della serie televisiva Haret el Yahud (“il quartiere ebraico”), la più seguita in Palestina degli ultimi mesi.

Haret el Yahud racconta una storia d’amore un po’ alla Romeo e Giulietta fra la bellissima figlia di un mercante ebreo e un comandante musulmano dell’esercito. È ambientata al Cairo, in Egitto, durante la guerra arabo-israeliana del 1948 e il periodo immediatamente successivo. L’atmosfera della soap è un misto fra Casablanca, Il violinista sul tettoLawrence d’Arabia. Non è raro che gli israeliani e gli ebrei siano presenti nelle serie televisive prodotte nel mondo arabo: il fatto è che nelle altre serie sono ritratti in modo stereotipato come avari, malvagi e dal naso lungo (oppure come occupanti della Palestina). In Haret al Yahrud gli ebrei parlano arabo, bevono molto caffè e discutono all’infinito di soldi, famiglia e politica. Proprio come i musulmani. «Non avrei mai pensato di poter guardare una cosa del genere», dice Mahmoud Dadoh, un agricoltore palestinese.

Quello che ha stupito Dado e i suoi amici è che Haret al Yahrud mostra gli ebrei in un’ottica positiva – come persone normali, e anche lodevoli – e che va in onda sulla tv pubblica palestinese, e quindi con l’implicito appoggio del governo. Secondo Dadoh, «è una cosa nuova per noi. Guarda quanta dignità, questi personaggi!». I suoi amici annuiscono. Durante il Ramadan in Palestina e nel mondo arabo è tradizione seguire assieme alla propria famiglia o ai propri amici alcune serie televisive che spesso contengono delle pubblicità costosissime come quelle del Super Bowl (durante il Ramadan la giornata “inizia” dopo il tramonto, quando si può bere, mangiare e fumare). Le serie più di successo di questo tipo vengono prodotte in Egitto e in Siria, e trasmesse un po’ ovunque in tutto il mondo arabo.

Haret el Yahud, prodotta in Egitto all’inizio del 2015, ha però ricevuto anche diverse critiche. Sulle prime, l’ambasciata israeliana in Egitto aveva lodato la soap opera per raffigurare gli israeliani «come esseri umani, prima di tutto». In seguito, dopo che alcuni personaggi ebrei della storia sono stati messi in cattiva luce, gli israeliani si sono lamentati del fatto che la soap opera aveva preso una strada ostile verso Israele. Anche i commentatori arabi si sono lamentati, spiegando che i personaggi musulmani della serie sono figure di poco conto – ballerine o trafficanti – mentre gli ebrei sono sempre raffigurati come personaggi patriottici e positivi. In un’intervista, uno dei creatori della seria ha effettivamente detto che uno degli obbiettivi non era «solamente fare soldi», ma anche «mandare un messaggio».

Khalid Sudar, il responsabile della programmazione della tv pubblica palestinese, ha detto di aver comprato i diritti per trasmettere Haret el Yahud ancora prima che iniziasse la produzione. Sudar ha aggiunto che sapeva di stare prendendo un rischio, ma che era certo del fatto che la soap opera «avrebbe fatto il botto». Oggi Haret el Yahud ottiene in Palestina circa il 40 per cento di share in prima serata. Sudar ha anche detto di avere recentemente incontrato il presidente della Palestina Mahmoud Abbas, il quale gli ha detto che Haret el Yahud è l’unica serie televisiva che segue. Secondo Sudar, «per molti palestinesi un ebreo è visto solamente come un soldato o un colono. E basta. Ecco cosa vede la nostra gente. Ora però sono io a chiedere agli israeliani di rappresentare i palestinesi in modo diverso. Siamo umani anche noi. Mostrateci come tali in tv».

©Washington Post