Il racconto del padre di Raghad, la bambina morta in mare

Eyas Hasoun ha spiegato al Corriere come è morta sua figlia, rimasta senza insulina durante una traversata dall'Egitto alla Sicilia

Raghad Hasoun (da un video pubblicato sul Corriere.it)
Raghad Hasoun (

I giornalisti del Corriere Alessandra Coppola e Andrea Galli hanno incontrato Eyas Hasoun, il padre della bambina Raghad morta in mare pochi giorni fa mentre insieme alla famiglia cercava di raggiungere le coste italiane a bordo di un’imbarcazione guidata dagli scafisti. Raghad era malata di diabete, e per questo Hasoun e la moglie si erano portati dietro per la traversata del Mediterraneo due zaini, ognuno contenente delle dosi di insulina. Lo zaino di Hasoun si era bagnato prima dell’inizio del viaggio e il contenuto era diventato inutilizzabile. Gli scafisti avevano poi gettato a mare lo zaino della moglie, nonostante le continue richieste contrarie della famiglia di Raghad. Raghad è morta al quinto giorno di viaggio. Hasoun aveva raccontato quello che era successo una volta sbarcato in Italia. Sabato sono stati arrestati tre scafisti egiziani che erano a bordo della barca e sono stati accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Eyas Hasoun è un uomo robusto di cinquant’anni, siriano della città di Aleppo, dove aveva un grande negozio di distribuzione di farmaci. Raghad, la quartogenita delle sue sei figlie, era una bimba esile di undici anni, appassionata di disegni e scrittura, malata di una grave forma di diabete che aveva iniziato a minarle il pancreas. Per una notte, la notte dell’agonia, su un barcone nel Mediterraneo, in uno spazio lungo una decina di metri, largo cinque e popolato da 320 immigrati, Raghad ha tenuto con la sua mano destra un dito di Eyas. «Si stava spegnendo… Mormorava “papà, papà” e non aggiungeva nessuna parola. Non ne aveva la forza ma in realtà non ce n’era bisogno: “papà” significa che sta a te occuparti di tutto, risolvere i problemi qualunque essi siano, proteggere la tua bambina sacrificandoti se necessario. Io non l’ho fatto. E questa colpa mi rimarrà addosso per l’intera esistenza. Insieme alla scelta di partire verso la Sicilia.

Avevamo preparato due grossi zaini: uno lo tenevo io e il secondo mia moglie Nailà, nel timore che avrebbero potuto dividerci. Gli zaini erano pieni di fiale di insulina, e di macchinari per misurare i valori del diabete e le giuste dosi di medicinale da somministrare. Sulla spiaggia di partenza, vicino ad Alessandria, gli scafisti ci hanno ordinato di raggiungere una piccola barca che distava un centinaio di metri. Inutile opporsi, erano armati di kalashnikov. L’acqua ci arrivava alla testa. Il mio zaino si è impregnato d’acqua. Mia moglie è riuscita a salvarlo, l’ha sollevato sopra il capo, allungando le braccia e soffrendo in silenzio per il dolore. Uno scafista le ha urlato di abbandonarlo. Mia moglie ha risposto che quello zaino era più prezioso della sua stessa anima, l’ha pregato d’avere pietà. Lo scafista gliel’ha strappato di mano, l’ha scaraventato in mare. Ci siamo immersi, lo abbiamo recuperato ma era ormai compromesso. I macchinari non funzionavano, le fiale erano inservibili, era difficile calcolare bene le dosi. Ho provato, ho provato ad aiutare la mia piccola Raghad… Ma senza macchinari, senza insulina, ero impotente. Avevo il buio che mi stava travolgendo».

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