“Whiplash” e i maestri crudeli

Esce uno dei film più belli e meno conosciuti tra quelli candidati all'Oscar, sulla storia di un giovane batterista e del suo insegnante

This image released by Sony Pictures Classics shows Miles Teller, left, and J.K. Simmons in a scene from "Whiplash." (AP Photo/Sony Pictures Classics, Daniel McFadden)
This image released by Sony Pictures Classics shows Miles Teller, left, and J.K. Simmons in a scene from "Whiplash." (AP Photo/Sony Pictures Classics, Daniel McFadden)

Paolo Giordano ha scritto sul Corriere della Sera una recensione di Whiplash – forse il meno conosciuto degli otto candidati all’Oscar come miglior film del 2015 – intervistando anche il regista del film, il trentenne statunitense Damien Chazelle. Whiplash racconta la storia di un giovane e solitario batterista e delle vessazioni che riceveva dal suo autoritario insegnante: ma non è il solito film sull’allievo promettente e il maestro severo. Chazelle ha detto a Giordano di aver suonato a lungo la batteria, e che ha scritto la sceneggiatura di Whiplash «come se stessi producendo un’autobiografia».

Il nome stesso del film è tratto da un complicato brano jazz del sassofonista Hank Levy, che Chazelle suonava da giovane assieme a “Caravan”, uno standard jazz del 1937 anch’esso presente nel film. Chazelle ha raccontato di averli voluti nel film «perché sono dei grandi pezzi, ma non solo: li ho voluti perché sono stati così importanti per me a livello personale. “Whiplash” è il primo brano che ho sentito suonare quando sono entrato nella band del conservatorio. Ero seduto dietro il batterista principale, a voltargli le pagine, e cercavo di seguire questo bizzarro tempo in sette quarti. Mi sentivo completamente perso, fuori dal mio elemento. “Whiplash” si è trasformato in una minaccia costante».

Damien Chazelle ha appena compiuto trent’anni, ha un passato di batterista jazz a livello professionale e cinque candidature agli Oscar per il suo secondo film, Whiplash, un film che per me è diventato una piccola ossessione di questo inverno. L’ho visto la prima volta al Torino Film Festival, dove si era sparsa rapidamente la voce intorno a quella «esperienza», ho fatto in modo di poterlo rivedere a breve distanza di tempo e sono certo che tornerò in sala per l’uscita italiana, il 12 febbraio.

Whiplash racconta la storia di Andrew Neiman (l’attore Miles Teller), diciannovenne che studia batteria jazz allo Shaffer Conservatory di New York, una scuola di musica (inventata) fra le più prestigiose degli Stati Uniti. Andrew non ha madre, né fidanzata, né amici, soltanto la propria aspirazione a diventare un grande fra i grandi, il nuovo Buddy Rich, perciò quello che fa dalla mattina alla sera è ascoltare ed esercitarsi, esercitarsi e ascoltare, e pestare sulla batteria come un invasato per guadagnare qualche frazione di battuta-per-minuto in più. L’ensemble più esclusivo della scuola è diretto da un insegnante sadico e spietato, Terence Fletcher (J. K. Simmons, che ha già vinto il Golden Globe per la sua interpretazione sopra le righe in tutti i sensi). Alla classe di Fletcher accedono soltanto i migliori musicisti e un giorno Andrew, con sorpresa di tutti, viene convocato. Fletcher lo ha sentito suonare e forse ne è rimasto colpito. Ma l’ingresso di Andrew nell’Olimpo di Fletcher non segna il principio di un idillio, bensì di una spirale distruttiva e perversa, fatta di umiliazioni continue, di violenza verbale e fisica, di isolamento crescente: il lato oscuro e malvagio — forse necessario, ed è questo il dilemma che il film lascia aperto — del rapporto fra un allievo e il suo maestro. Fletcher sostiene che Charlie Parker non sarebbe mai diventato quel Charlie Parker, «Bird», se Jo Jones non gli avesse scagliato addosso un piatto al termine di una performance alquanto mediocre, perciò anche lui, alla ricerca del Bird nella sua classe, lancia piatti, leggii, sedie, tutto ciò che gli capita a tiro.

A sentire Chazelle, che mi risponde al telefono da qualche angolo della West Coast, buona parte di ciò che è narrato nel film è accaduta davvero. «A diciannove anni, l’età di Andrew, ero ancora un batterista, anche se muovevo i primi passi nella regia. La storia del film si concentra su un periodo che per me fu in realtà appena precedente, gli anni delle superiori, i più intensi per me come musicista. Suonavo in questa big band con un insegnante di primo livello, e la competizione era altissima. Oggi ho più che altro ritirato le bacchette, ma il film è stato un tentativo di tornare a quella fase della mia vita con un po’ di oggettività».

(Continua a leggere sul sito del Corriere della Sera)

nella foto, una scena del film (AP Photo/Sony Pictures Classics, Daniel McFadden)