La fine dei casellanti

Le storie delle persone che vivevano nei pressi dei passaggi a livello ferroviari, in case che oggi devono essere sgomberate

Jenner Meletti racconta su Repubblica che fine hanno fatto i casellanti: quelli che vivevano nei pressi dei passaggi a livello ferroviari non automatici e che avevano il compito di abbassare e alzare manualmente le sbarre per fermare il traffico durante il passaggio dei treni. Molti di loro vivono ancora nei caselli, che ora devono essere sgomberati perché troppo vicini ai binari e potenzialmente a rischio, in caso di deragliamento. Ma non tutti se ne vogliono andare.

Rimini passava anche davanti a loro, il treno dei signori. «Era il Settebello, il più veloce di tutti. Appena il tempo di vedere la veranda in testa al convoglio, il flash delle facce dei viaggiatori di prima classe che guardavano il panorama, ed era già passato. Aveva una striscia verde, sulle fiancate. Era bellissimo. E noi lì davanti alla garitta, cappello in testa che se non stavi attento volava via, e la bandiera rossa arrotolata in mano». Hanno cento ricordi, gli uomini che guardavano passare i treni. «Era un mestiere duro, quello del casellante. Non per la fatica. In fin dei conti si trattava di girare una manovella per abbassare le sbarre prima dell’arrivo di un convoglio. Il problema vero era stare svegli, soprattutto con il buio. Ma il nostro in fondo era un bel mestiere».

Sergio Morri, classe 1948 e Antonio Savioli, classe 1944, riminesi, sono stati «guardiani » — questa la qualifica, equivalente a quella di manovale — di caselli ferroviari fino al 1992. Gli ultimi casellanti sono stati «rottamati» dalle Fs nel 1999. Alcuni, in pensione, sono rimasti a vivere nei caselli ma adesso è arrivato il momento dell’addio, per «fine locazione». Sulle linee che dalla Lunigiana portano alla Versilia è arrivato l’ordine di Ferservizi di lasciare le case. Troppo vicine ai binari, meno di quattro metri e mezzo: sarebbero travolte in caso di deragliamento. C’è chi aveva ristrutturato il casello a proprie spese e adesso non sa dove andare.

«Dovranno mandare i carabinieri», dicono le cento famiglie che vivono a fianco dei binari fra Toscana e Liguria e altre 332 sparse in tutta Italia. «L’orologio — raccontano i due casellanti riminesi — era importante. Quando abbiamo iniziato, nel 1972, su alcune linee non c’era ancora il quadro elettrico, con luci e suoneria che avvertita dell’arrivo del treno. Allora avevamo solo l’orario ferroviario e c’era l’obbligo di chiudere le sbarre cinque minuti prima. Se c’era ritardo, non sempre ci avvertivano. E allora tenevi chiuso per dieci, venti minuti e ti prendevi gli accidenti di quelli che aspettavano sulle auto o sui trattori. “Sergio, ti decidi?”. “Antonio, è ancora lunga?”. Da quando siamo andati in pensione, l’orologio non lo portiamo più. Questa, per un ex casellante, è la vera libertà».

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