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  • Giovedì 20 marzo 2014

Perché guardare “The Americans”

Spiegato a chi non lo fa già: la storia di una coppietta perfetta che è in realtà una coppia di spie sovietiche infiltrate negli Stati Uniti durante la Guerra fredda

Tim Small, ex direttore di Vice Italia e direttore della rivista online Ultimo Uomo, ha scritto un lungo articolo sulla serie televisiva The Americans, una serie di spionaggio americana che secondo Small «ha ben poco in comune» con le molte altre che appartengono allo stesso filone. The Americans viene trasmesso negli Stati Uniti dal canale FX, mentre in Italia dal canale satellitare Fox. È attualmente in corso la seconda stagione della serie, la cui puntata finale sarà trasmessa negli Stati Uniti il 21 maggio. Per ora non è prevista una terza stagione. La vicenda racconta la vita di due spie russe che vivono nei pressi di Washington D.C. durante la Guerra fredda, in incognito, in modo da sembrare dei cittadini americani, e però sposati: e infatti la serie, oltre a mostrare moltissime sparatorie, intrighi, complotti e cose da spie – che Small spiega essere gestite in maniera molto credibile – racconta anche la vicenda di due persone che fingono di essere sposate, dei loro figli – che sono loro figli davvero – e delle dinamiche narrative che si sviluppano a partire da questi presupposti.

Non mi ricordo esattamente quando, ma una sera di qualche anno fa ero nella mia cucina con un’amica che ora non vive più a Milano. Parlavamo di serie tv: lei elencava le virtù de I Soprano. Io le davo ragione—miglior programma di sempre, certo—ma cercavo di convincerla a vedere The Wire. Sostenevo, come sostengo tutt’ora, che fosse l’unica serie ad aver raggiunto, e forse superato, il livello dell’opera di David Chase. Le dissi tutte le cose che dico da sette anni ogni volta che voglio convincere uno scettico a dedicare 60 ore della sua vita a The Wire: l’affresco corale pazzesco, la grande metropoli corrotta raccontata come mai prima, il punto focale che si allarga di stagione in stagione senza mai perdere il suo centro, la scrittura eccellente, il cuore, i personaggi memorabili.

Sebbene mi stessi dedicando a quest’operazione di convincimento come a un lavoro amato, non funzionava. “The job will not save you, Timmy”, pensai. Dopo un po’ mi arresi e le dissi semplicemente, «OK, senti: i mafiosi sono fighi, ma anche il ghetto lo è. Anzi, il ghetto è più figo». Una riduzione disperata, ma non falsa. Lei, a quel punto, annuì, come a dire, “in effetti…”, sorprendendomi. L’avevo convinta, e con così poco. Fatto sta che lei iniziò a vedere The Wire, la amò, e io mi reputai soddisfatto del compito svolto. Se ci penso adesso, forse non era poi così ridicolo ridurre alcune delle migliori opere di cultura popolare degli ultimi anni a un semplice “fattore-di-cosa-parlano”. In questo caso, almeno, aveva funzionato. Quindi, per giungere all’argomento di questo pezzo: The Americans parla di spie, ed è la migliore nuova serie da due anni a questa parte. E prima di arrivare al resto dell’articolo, OK, sentitemi: anche le spie sono molto fighe.

Per chi non lo sapesse, The Americans è una serie tv trasmessa da FX e prodotta da Graham Yost, il responsabile dell’ottima Justified, che è giunta ora all’inizio della sua seconda stagione. È interpretata dalla bella e brava Keri Russell (Elizabeth Jennings) e dall’altrettanto bello e bravo Matthew Rhys (Philip Jennings), nei ruoli di una coppia sposata in una Washington Reaganiana dei primi anni ’80. Si dice siano anche una coppia nella vita vera. Il creatore invece è Joe Weisberg, ex-agente della CIA (operativo all’inizio degli anni ’90), poi diventato insegnante, infine sceneggiatore. Il fatto che Weisberg abbia esperienza diretta del mondo dello spionaggio è estremamente utile al successo di The Americans, come potete immaginare, ma, per quanto mi riguarda, penso che lo sia per due ragioni molto particolari. La prima, quella più ovvia, è la credibilità. I dettagli operativi da nerd dello spionaggio, ad esempio su come ricevono messaggi in codice via radio o su come funzionano i dead-drops (aka i nascondigli ripetuti, ad es. sotto una particolare erogatrice di bibite in una particolare stazione di servizio, dove le spie in questione vanno a ritirare cose fighissime come microfilm o ordini cifrati da Mosca), sono estremamente credibili.

La seconda è che questa credibilità diffusa in ogni procedura permette al programma di basarsi su un concetto tanto ridicolo quanto drammaticamente pregno di possibilità narrative, senza farci troppo storcere il naso. L’evidente competenza con la quale sono scritte e girate le scene di spionaggio “hard” rendono possibile la creazione di un universo immaginario coerente e verosimile: che è poi il fondamento dell’illusione filmica, il concetto, alla fine dei conti, che ci permette di godere di uno spettacolo audiovisivo senza chiederci costantemente perché siamo coinvolti dalla storia di due attori che indossano costumi.

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