Una giornata con Vivian Maier

Alessandro Baricco è andato a Tours a vedere le foto bellissime di una fotografa di strada, che gli hanno fatto odiare Photoshop

Vivian Maier è una delle esponenti più apprezzate di quel genere fotografico oggi generalmente definito “fotografia di strada” (street photography), sebbene gran parte delle sue opere siano state scoperte solo pochi anni fa. Nacque nel 1926 a New York ma trascorse diversi anni in Francia, prima di tornare negli Stati Uniti nel 1951. Si formò da autodidatta, come molti altri fotografi di quegli anni, e si specializzò in un genere favorito dalla diffusione di nuove macchine fotografiche più comode da trasportare e semplici da usare. Per molto tempo lavorò anche come governante presso famiglie benestanti: per tutto il tempo in cui visse in affitto – praticamente da spiantata – mise da parte moltissimo materiale che è stato scoperto soltanto in tempi molto recenti (Maier è morta nel 2009 a Chicago, dove si era trasferita nel 1956).

A novembre scorso la galleria nazionale del Jeu de Paume – uno spazio pubblico di fotografia e arte contemporanea che si trova nel giardino delle Tuileries, a Parigi – aprì una mostra dedicata a Vivian Maier ( Vivian Maier (1926-2009), une photographe révélée), e fu la prima grande mostra dedicata al lavoro di Maier. In un articolo pubblicato su Repubblica, domenica 9 marzo, lo scrittore Alessandro Baricco ha raccontato invece di una sua visita a una mostra di Vivian Maier allestita a Tours, città della Francia centro-occidentale (e luogo di nascita di Honoré de Balzac). Baricco racconta diverse cose della gran storia di Vivian Maier – «non c’è traccia di una sua vita sentimentale, non pare avesse amici, era solitaria e indipendente» – e parla dei pensieri che gli sono venuti in mente guardando le sue fotografie: «sfido chiunque a fissarle senza percepire, in un attimo di lucidità, la smisurata vigliaccheria del fotografare digitale: devo a tata Maier il mio definitivo disprezzo per Photoshop».

Si chiamava Vivian Maier, e se il nome non vi dice niente, la cosa è abbastanza normale. Nella vita faceva la tata, lo stesso mestiere di sua madre e di sua nonna: lo faceva per le famiglie upper class di Chicago, e lo faceva bene, con limitato entusiasmo, pare, ma con inflessibile diligenza. Lo fece per decenni, a partire dai primi anni Cinquanta: i suoi bambini di allora adesso sono adulti che, piuttosto increduli, si vedono arrivare giornalisti o ricercatori che vogliono sapere tutto di lei. Un po’ spaesati, annotano che non è il caso di immaginarsi Mary Poppins: era un tipo maniacalmente riservato, un po’ misterioso, piuttosto segreto. Faceva il suo dovere, e nei giorni di vacanza, spariva. Non c’è traccia di una sua vita sentimentale, non pare avesse amici, era solitaria e indipendente. Non scriveva diari e che io sappia non ha lasciato dietro di sé una sola frase degna di memoria. Le piaceva viaggiare, naturalmente sola: una volta si fece il giro del mondo, così, perché le andava di farlo: è anche difficile capire con che soldi.

Una cosa che tutti ricordano di lei è che accatastava oggetti, fogli, giornali, e la sua stanza era una specie di granaio della memoria, immaginato per chissà quali inverni dell’oblio. Collezionava mondo, si direbbe. L’altra cosa che tutti ammettono è che sì, in effetti, girava sempre con una macchina fotografica, le piaceva scattare foto, era quasi una mania: ma certo, da lì a immaginare quel che sarebbe successo… Quel che è successo è questo: arrivata a una certa età, tata Maier si è ritirata dall’attività, si è spiaggiata in un sobborgo di Chicago e si è fatta bastare i pochi soldi messi da parte. Dato che accatastava molto, come si è visto, affittò un box, in uno di quei posti in cui si mettono i mobili che non stanno più da nessuna parte, o la moto che non sai più che fartene: ci ficcò dentro un bel po’ di roba e poi finì i soldi, non riuscì più a pagare l’affitto e quindi finì come doveva finire.

Quelli dei box, se non paghi, dopo un po’ mettono tutto all’asta. Non stanno nemmeno a guardare cosa c’è dentro: aprono la porta, gli acquirenti arrivano, danno un’occhiata da fuori e, se qualcosa li ispira, si portano via tutto per un pugno di dollari: immagino che sia una forma sofisticata di gioco d’azzardo. L’uomo che si portò via il box di tata Maier si chiamava John Maloof. Era il 2007. Più che altro si portò via scatoloni, ma quando iniziò a guardarci dentro scoprì qualcosa che poi avrebbe cambiato la sua vita, e, immagino, ingrassato il suo conto in banca: un misurato numero di foto stampate in piccolo formato, una marea di negativi e una montagna di rullini mai sviluppati. Sommando si arrivava a più di centomila fotografie: tata Maier, in tutta la sua vita, ne aveva visto forse un dieci per cento (pare non avesse i soldi per lo sviluppo, o forse non le importava neanche tanto), e non ne pubblicò nemmeno una. Ma Maloof invece si mise a guardarle per bene, a svilupparle, a stamparle: e un giorno si disse che o era pazzo o quella era una dei più grandi fotografi del Novecento. Optò per la seconda ipotesi. Volendo credergli, si mise anche a cercarla, questa misteriosa Vivian Maier, di cui non sapeva nulla: la trovò, un giorno del 2009, negli annunci mortuari di un giornale di Chicago. Tata Maier se n’era andata in silenzio, probabilmente in solitudine e senza stupore, all’età di 83 anni: senza sapere di essere, in effetti, com’è ormai chiaro, uno dei più grandi fotografi del Novecento.

La prima volta che ho incrociato questa storia ho naturalmente pensato che fosse troppo bella per essere vera. Tuttavia le foto erano davvero pazzesche, tutte foto di strada, quasi tutte in bianco e nero: pazzesche. Così ho setacciato un po’ il web scoprendo che in effetti il mito della Maier era già lievitato niente male, sebbene all’insaputa mia e dei più: mostre, libri, perfino due film, uno prodotto dalla Bbc: insomma, se era un falso, era un falso fatto maledettamente bene. Quindi una certa curiosità continuava a ronzarmi dentro finché ho scoperto che a Tours, amabile cittadina della provincia francese, neanche poi tanto lontana, c’era una mostra dedicata a tata Maier. Non so, ho pensato che volevo andare a vedere da vicino, a toccare con mano, a scoprire qualcosa. Insomma, alla fine ci sono andato. Dopotutto, Tours è anche il posto in cui è nato Balzac, un pellegrinaggio letterario non ce lo si nega mai, potendo.

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