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  • Venerdì 21 febbraio 2014

Perché i Sandinisti si chiamavano così

Per via di Augusto Sandino, uno dei primi leader rivoluzionari sudamericani che ispirò Fidel Castro e Che Guevara e fu ucciso oggi 80 anni fa

Il 21 febbraio del 1934, 80 anni fa, Augusto César Sandino, un capo rivoluzionario che per sei anni era riuscito a sfuggire all’esercito del Nicaragua e ai marines degli Stati Uniti, venne assassinato nonostante la firma di un accordo di pace con il governo. Nei decenni successivi alla sua morte, Sandino divenne uno dei modelli più importanti per i rivoluzionari dell’America Latina. Fidel Castro, Che Guevara, le FARC colombiane e l’ex presidente del Venezuela, Hugo Chavez, dichiararono di essersi richiamati alle sue tattiche e ai suoi ideali. Sandino ispirò un lunghissimo movimento di guerriglia in Nicaragua che divenne noto alle cronache in tutto il mondo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quello dei Sandinisti.

Dopo 20 anni di guerriglia, i Sandinisti riuscirono a rovesciare il regime della famiglia Somoza (i discendenti dello stesso dittatore che, quasi mezzo secolo prima della loro vittoria, aveva ordinato l’assassinio di Sandino). La vita di Sandino è spesso stata raccontata con il tono agiografico che si riserva ai padri della patria, ma la sua storia e quella del tumultuoso periodo che visse il Nicaragua tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta è molto controversa.

Augusto Sandino
Sandino era il figlio illegittimo di un politico di un piccolo villaggio nella parte occidentale del Nicaragua e di una delle sue serve indie. Visse i primi anni con la madre, con poco denaro e sempre in grande difficoltà (lui stesso raccontò di aver passato un periodo di tempo in prigione a causa dei debiti di sua madre). A 9 anni Sandino tornò a vivere con il padre e ricevette un’istruzione.

All’epoca il paese era diviso tra i liberali (anticlericali e democratici) e i conservatori (religiosi e autoritari). Il padre di Sandino era un liberale, spesso coinvolto in litigi e dibattiti con gli altri notabili più conservatori del loro paese. Nel 1921 il paese sembrava molto vicino allo scontro armato tra le due fazioni e Sandino fu costretto a fuggire in Messico dopo aver tentato di uccidere il figlio di un conservatore della sua città che aveva fatto alcune insinuazioni sulla madre. Quando Sandino tornò in Nicaragua, nel 1927, la rivalità tra conservatori e liberali si era trasformata in una guerra civile.

Le vicende del Nicaragua di quegli anni sono molto complesse così come quelle di gran parte dei paesi dell’America centrale nello stesso periodo. Governi liberali e conservatori si alternavano durante elezioni più o meno fraudolente, venivano abbattuti da movimenti di guerriglia, si creavano nuovi regimi che poi, a loro volta, venivano sostituiti con colpi di stato militari. In questo caos a volte intervenivano gli Stati Uniti che spesso non avevano le idee chiare su come comportarsi.

I marines venivano inviati per proteggere gli interessi delle grandi compagnie petrolifere, minerarie o della frutta statunitensi presenti in quei paesi (ecco perché vennero ribattezzati genericamente “Repubbliche delle banane“). Spesso, accadeva che dopo poco i soldati venissero ritirati a causa delle pressioni degli isolazionisti o di chi chiedeva di tagliare il budget federale. La situazione del Nicaragua negli anni di Sandino è un buon esempio della confusione che regnava in quegli anni nel Centroamerica.

Quando Sandino ritornò nel suo paese, un gruppo di liberali, guidato dal generale José María Moncada e dal vice presidente Juan Bautista Sacasa aveva organizzato una rivolta nella parte orientale del paese, sulla costa caraibica, contro il governo conservatore più o meno appoggiato dagli Stati Uniti. Sandino creò rapidamente una banda di miliziani, in gran parte contadini e braccianti armati al massimo di machete e forconi, e si affrettò a raggiungere l’esercito di Moncada.

Sandino era uno sconosciuto a capo di una banda poco organizzata e male armata, quindi all’inizio non gli venne concesso alcun incarico nella ribellione. Nei mesi successivi, riuscì però a distinguersi impossessandosi di alcuni fucili presi ai soldati governativi e grazie al suo carisma la banda che guidava si fece sempre più grande: inoltre, le amicizie che aveva ottenuto durante il suo “esilio” in Messico gli furono utili per rifornirsi di altro materiale militare.

Sandino cominciò dunque ad essere conosciuto e alla fine Moncada e Sacasa gli affidarono un incarico nell’esercito ribelle. Pochi mesi dopo però, liberali e conservatori si incontrarono per dei negoziati sponsorizzati dagli Stati Uniti e venne stabilito un armistizio tra le due parti. Il presidente Adolfo Diaz accettò di indire elezioni alla fine del suo mandato, l’anno successivo, il 1928. La correttezza delle elezioni sarebbe stata garantita da alcuni militari americani inviati nel paese, mentre sarebbe stato creato un nuovo esercito, la Guardia Nazionale, nel quale sarebbero entrati sia i soldati dei conservatori che quelli dei liberali.

Sandino non accettò l’accordo. Accusò i liberali che lo avevano appena accolto nel loro esercito di essere dei vendepatria, dei venditori della patria, denunciò che la presenza degli americani era un modo per privare il Nicaragua della sua sovranità e proclamò che avrebbe combattuto sino a che il suo paese non fosse stato completamente libero dalle influenze straniere. Con la sua banda di guerriglieri si rifugiò nella giungla e ricominciò la sua guerriglia.

L’eroe Sandino
Gli anni tra il 1927 e il 1934 furono il periodo in cui in Nicaragua, e nel resto del mondo, si formò il mito di Augusto Sandino (o Generalissimo Augusto César Sandino, come cominciò a farsi chiamare di lì a poco). Sandino fu abilissimo non soltanto a sfuggire alle truppe del governo e ai pochi marines che gli Stati Uniti avevano inviato nel paese (non furono mai più di un centinaio, con alcuni aerei per aiutarli nella ricognizione), ma anche a trasformare se stesso e la sua causa in un mito popolare.

Sandino aveva un vero e proprio ufficio stampa in Messico, il paese dove era stato in esilio e dove il regime che aveva appena vinto la rivoluzione gli rimase sempre amico, da dove faceva partire i suoi comunicati e i suoi manifesti. Lui stesso concesse diverse interviste, tra cui una ad un giornale americano, The Nation (mentre i suoi comunicati finivano regolarmente sulla stampa americana, divisa tra il considerarlo un brigante o un eroe). Sandino conosceva bene anche l’importanza delle immagini e si fece fotografare spesso. Fu probabilmente uno dei primi leader rivoluzionari a capire l’importanza di creare una simbologia che lo identificasse in maniera inequivocabile. Nel suo caso, erano un grande cappello da cowboy e alti stivali di cuoio (per Che Guevara sarà il basco nero, per Fidel Castro il sigaro e il berretto con la visiera).

Sandino, che era per metà indio da parte di madre, proclamò che la sua era una crociata per la liberazione degli indios di tutto il continente americano. A questo progetto unì anche una vaga ideologia marxista che per qualche tempo gli garantì anche l’appoggio del Comintern, l’organo appena fondato in Unione Sovietica con cui il partito comunista russo cercava di incentivare le rivoluzioni popolari in tutto il mondo. In realtà, Sandino rifiutò il comunismo, preferendo alcune bizzarre teorie che aveva conosciuto in Messico e che avevano il nome di “Scuola magnetico spirituale della comunità universale”.

I comunicati che Sandino diffondeva erano piuttosto esagerati per motivi di propaganda. Si diceva che al suo comando non avesse mai avuto meno di 3 mila uomini e che in ogni scontro i suoi guerriglieri, armati solo di machete, pugnali e poco altro, finissero con l’uccidere decine di marines e guardie nazionali, subendo sempre poche perdite. In realtà la banda di Sandino non fu mai composta da più di qualche centinaio di persone. Spesso erano ben armati (e con armi americane, comprate grazie al denaro dei finanziatori messicani), e, nonostante questo, non giunsero mai a rappresentare un vero pericolo per l’esercito governativo o per i soldati americani che erano rimasti in Nicaragua. Quando inoltre le elezioni del 1928 furono vinte dal liberale Moncada, a Sandino venne tolta la possibilità di dire che stava lottando per il movimento costituzionale: fu allora che trasformò la sua lotta in uno scontro contro gli Stati Uniti.

Nei suoi sei anni di guerriglia Sandino si limitò ad attaccare piantagioni, miniere e stabilimenti, spesso di proprietà di uomini d’affari americani (e così facendo causava il prolungamento della permanenza dei militari americani in Nicaragua, visto che quegli stessi uomini d’affari facevano pressioni a Washington perché Sandino venisse catturato). Compì anche diversi atti che oggi sarebbero considerati crimini di guerra: costringere la popolazione di villaggi e paesi a rifornire i suoi miliziani, uccidere o addirittura mutilare chi si rifiutava di aiutare i suoi ribelli (simili atrocità, come avviene quasi sempre nelle guerre civili, vennero compiute anche dalle truppe del governo, quando scoprivano qualcuno che aveva aiutato Sandino).

La morte
Alle elezioni del 1933 salì al potere un altro liberale, Sacasa (l’ex vice presidente che insieme a Moncada aveva iniziato la rivoluzione del 1927). Contemporaneamente, a Washington, i cosiddetti “isolazionisti”, cioè i politici e gli opinionisti che ritenevano che gli Stati Uniti non dovessero immischiarsi negli affari di altri paesi (in genere perché lo consideravano uno spreco di soldi), riuscirono a persuadere il governo a ritirare le truppe dal Nicaragua (che, dopo tutto, in sei anni non erano riuscite a catturare Sandino). Di fronte al ritiro degli americani e alla vittoria dell’ennesimo candidato liberale, Sandino non aveva più motivi per combattere e accettò una tregua molto vantaggiosa con il governo. Ai suoi ribelli furono garantiti terreni e posti nella pubblica amministrazione.

L’accordo, però, non piaceva alla Guardia Nazionale, l’esercito del paese che per sei anni era stato “umiliato” da Sandino non riuscendo a catturarlo. Il generale Anastasio Somoza, comandante della Guardia Nazionale, nel 1934 ordinò che Sandino venisse assassinato. Il 21 febbraio del 1934, mentre usciva da un incontro con il presidente Sacasa, nella capitale Managua, Sandino venne fermato dai militari mentre si trovava in auto insieme al fratello, al padre e ad alcuni comandanti della sua milizia. I militari separarono Sandino dal padre e, insieme al fratello e agli due membri del movimento, li portarono in un vicolo poco distante e li fucilarono. Due anni dopo Somoza depose il presidente Sacasa e instaurò una dittatura familiare che durò per 40 anni.

I sandinisti
La figura di Sandino, con la sua attenzione per l’aspetto comunicativo e simbolico e la forte retorica anti-americana ispirò i principali leader rivoluzionari sudamericani degli anni Cinquanta. Quando, nel 1959, Guevara e Castro riuscirono a rovesciare la dittatura cubana, la loro rivoluzione ispirò a sua volta un nuovo movimento di guerriglia in Nicaragua. Il gruppo, che assunse il nome di “Sandinisti”, era in realtà composto da una coalizione molto eterogenea di forze di sinistra – in cui un ruolo molto importante ebbero anche i movimenti femministi – e che, rispetto al movimento di Sandino, avevano un’impronta più chiaramente marxista.

La guerra civile durò 20 anni e nel 1979 portò alla fine della lunghissima dittatura della famiglia Somoza. La vittoria dei Sandinisti, però, causò l’inizio di una seconda guerra civile. I guerriglieri che si nascondevano nella giungla, questa volta, erano le forze dei Contra, i “controrivoluzionari” conservatori finanziati dagli Stati Uniti. La guerra, che aveva lasciato il paese in macerie, finì definitivamente con le elezioni generali del 1990, vinte da una coalizione di conservatori.

Fuori dal Nicaragua, tra i gruppi di sinistra, Sandino è sempre rimasto uno dei simboli più importanti di ribellione all’imperialismo americano e di emancipazione dei popoli americani. Nel suo paese, invece, le sue fortune hanno più o meno seguito quelle di chi era al potere. Un indizio significativo di questo atteggiamento sono le sorti dell’aeroporto internazionale di Managua, la capitale del paese. Battezzato aeroporto Augusto Sandino nel 1980 dopo la vittoria dei Sandinisti, ha cambiato nome parecchie volte. Quando nel 2001 le elezioni vennero vinte da un candidato conservatore, l’aeroporto venne ribattezzato con il più neutro nome di “Aeroporto Internazionale di Managua”.

Le sorti dell’aeroporto – così come quelle della figura di Sandino – si sono più o meno stabilizzate dal 2007, quando entrò in carica Daniel Ortega, l’attuale presidente del paese. Ortega, che ha sposato una discendente di Sandino e non manca di farlo notare, non solo ha cambiato nuovamente il nome all’aeroporto (che ora si chiama “Augusto Sandino”), ma ha definitivamente consacrato l’immagine del rivoluzionario nell’iconografia del paese. Oggi, in molti luoghi del Nicaragua, si possono vedere le gigantesche statue che rappresentano la silhouette di un uomo con un largo cappello da cowboy e alti stivali di cuoio.