40 anni da Robbie Williams

Una playlist e un po' di fotografie su uno che è diventato quello che George Michael non è più, e infila una canzonetta dopo l'altra

Robbie Williams al Queens Theatre di Londra, 23 giugno 2003. 
(Bruno Vincent/Getty Images)
Robbie Williams al Queens Theatre di Londra, 23 giugno 2003. (Bruno Vincent/Getty Images)

Oggi il cantante inglese Robbie Williams compie 40 anni. Queste sono le dieci canzoni che Luca Sofri, peraltro direttore del Post, aveva scelto per il suo libro Playlist, integrate con tre di quelle più recenti.

La cosa impressionante di Robbie Williams è l’effetto che fa sulle ragazze. Non è particolarmente bello, ma fa perdere la testa alle più insospettabili, dalle irriducibili cultrici della musica magrebina alle snob che di solito sputerebbero in faccia a chiunque si avvicini ai primi cinquanta posti della classifica. Lui di solito li occupa tutti e cinquanta, è diventato quello che George Michael non è più, e infila una canzonetta usa e getta dopo l’altra, una meglio dell’altra. È dannatamente bravo, la miseria.

Back for good

(Nobody else, 1995)
“Back for good” è una grandiosa melassata dei tempi dei Take That, che se finisce su queste pagine è solo perché se ne trova in rete una versione dal vivo di Robbie Williams in cui lui trascina il pubblico di ragazzine appassionate nel coro sulla strofa, e poi con un colpo di genio trasforma il ritornello in un pezzo punk durissimo e spietato, tutto chitarra e batteria e lui che urla neanche fosse Sid Vicious. Una versione dello stesso genere assieme al suo ex socio Mark Owen sta sul DVD “What we did last summer”.
(Nel video è dal minuto 2.27 circa)

Let me entertain you

(Life thru a lens, 1997)
“Lasciate che vi diverta”: una precoce dichiarazione d’intenti, ampiamente rispettata, ampiamente rock.

Strong

(I’ve been expecting you, 1998)
“You think that I’m strong: you’re wrong, you’re wrong”
 Robbie Williams lo va dicendo ancora oggi, che quello che vediamo non è lui, che per andare sul palco deve convincersi di essere un altro eccetera. D’altronde, al posto suo, cosa fareste? E quanto è Beatles (via Tears for Fears) il passaggio “step inside the sun…”?

Supreme
(Sing when you’re winning, 2001)
“All the best women are married, all the handsome men are gay”.
 Poi un ritornello appiccicosissimo e, ciliegina, la lunga citazione di “I will survive” di Gloria Gaynor (sul cui tema gira più mimeticamente tutta la canzone).
The road to Mandalay
 (Sing when you’re winning, 2001) Mandalay è la seconda città della Birmania, e ha un milione di abitanti. La strada per Mandalay era già stata una poesia di Kipling divenuta una canzone di Sinatra. Robbie Williams invece non ne racconta granché, associando un viaggio orientale a un consuntivo di traversie e sbagli fatti.

Let love be your energy
(Sing when you’re winning, 2001)
Questa è una canzone dei Tears for Fears, secondo periodo. Cioè, non che lo sia davvero: nel senso che sembra tirata fuori da “The seeds of love”. Testo motivazionale, come dicono quelli delle case editrici da testi motivazionali: “se volete cambiare, che l’amore sia la vostra energia”. Roba da rimanerci secchi.

Something beautiful

(Escapology, 2003)
“If you can’t wake up in the morning”: formidabile canzonetta estiva di ottimismo spiccio, per cui “qualcosa di bello capiterà”. Parapappapà…

Sexed up

(Escapology, 2003)
L’uomo è spiritoso. Una delle sue canzoni più romantiche e da sventolare l’accendino dice in realtà che non ne può più di lei: “perché non ci molliamo? Non abbiamo più niente da dirci”. E ancora, dove il suono strappebbe la lacrimuccia: “Fottiti, i tuoi gusti non mi sono neanche mai piaciuti. Spero che tu sparisca. Vado a trovarmene un’altra”. Perfetta.

Advertising space
(Intensive care, 2005)
Parla di Elvis e cita True romance, 
il film di Tarantino con Christian Slater che riesce a parlare con Elvis. In mezzo, Marlon Brando, il Watergate, e il Vietnam. Ma tutto quello che resta è lo spazio per la pubblicità.

Sin sin sin
(Intensive care, 2005)
Elettropop da anni ruggenti dell’elettropop, un refrain con le esse che funziona sempre (come “Say say say”, o “Say it isn’t so”, o “S.O.S”, o “Someone somewhere in summertime”), e un primato scocciante: la più bassa posizione in classifica (ventiduesimo) nella storia dei singoli di Robbie Williams.

Lovelight
(Rudebox, 2006)
Era un pezzo di Lewis Taylor, eclettico musicista e produttore britannico, che lo aveva messo in un disco del 2003. Molto soul, ma montato su un robusto arrangiamento dance di Mark Ronson, un altro che ne sa inventare, con i suoni. Più che in ogni altro paese del mondo, andò forte in Italia dove il singolo arrivò al quarto posto in classifica.

We’re the Pet Shop Boys
(Rudebox, 2006)
Baracconata alla Pet Shop Boys, prodotta dai Pet Shop Boys in un disco ricco di collaborazioni, e suonata e cantata dai Pet Shop Boys con un titolo spiritoso da Pet Shop Boys e un testo autobiografico sui Pet Shop Boys. Insomma, Robbie Williams – che dice di essersi sentito un Pet Shop Boy cantandola – non fa quasi niente, ma l’idea è divertente.

Candy
(Take the crown, 2012)
È una filastroccona non particolarmente originale che proprio per il suo andamento va forte tra i bambini (e sempre di caramelle parla): però la successione di note gonfie che sta sotto la filastroccona non è niente male. A questo punto, poi, suonavano un po’ tutte imitazioni di canzoni di Robbie Williams.