“Resta con me! Non mollare!”

Lo dicono in centinaia di film al povero cristo di turno, rimasto ferito e che rischia di perdere i sensi: ma serve a qualcosa?

Alla fine del 2013, la rubrica “Explainer” del sito di informazione statunitense Slate aveva chiesto ai suoi lettori di votare la migliore domanda senza risposta dell’anno. La sezione è una delle più conosciute di Slate ed è nata per dare spiegazioni ai lettori su temi di diverso tipo: le domande sono inviate da chi legge il sito, quelli che gestiscono la rubrica scelgono le migliori e rispondono con articoli che spiegano e motivano le loro risposte. “Explainer” si occupa di decine di domande ogni anno, ma quelle che ottengono risposta sono una parte molto piccola delle richieste inviate ogni giorno. Per questo motivo a fine anno viene lanciato il concorso per trovare la migliore domanda, tra quelle più insolite, cui vale la pena rispondere.

La votazione si è conclusa nei primi giorni dell’anno e ha vinto questa domanda, di cui è stata pubblicata di recente la risposta.

In innumerevoli film ed episodi di serie TV, un personaggio dice a un altro rimasto ferito di “stare con lui”, di non perdere conoscenza. Ci sono basi sanitarie per questo? Il corpo ha bisogno di non perdere conoscenza per affrontare l’emergenza? Non è che queste anime pie accelerano la morte del personaggio?

Daniel Engber spiega che “no, no e no”: se qualcuno sta per perdere i sensi o finire in coma non c’è niente che possa essergli detto per far cambiare le cose. Lo stato di incoscienza non è necessariamente il primo passo verso la morte: qualsiasi cosa porti alla perdita di sensi – un ictus, un’overdose, un’emorragia – continuerà a progredire a prescindere dallo stato di coscienza o meno della persona interessata. Mantenerla sveglia o lasciare che perda i sensi non fa sostanzialmente differenza.

Una persona che perde coscienza e non risponde più agli stimoli può comunque rischiare qualcosa. Una cosa su tutte è la morte per soffocamento: quando si perdono i sensi i muscoli delle vie aeree si rilassano e c’è la possibilità di soffocare, se per esempio la lingua ricade all’indietro sul palato ostruendo il passaggio dell’aria. Per questo motivo una delle primissime cose che fanno i medici di pronto soccorso è verificare che il paziente abbia le vie aeree libere, intervenendo se necessario con l’intubazione o nei casi più estremi praticando una tracheotomia (cioè l’apertura di una via respiratoria alternativa forando la trachea). Chi ha seguito un corso di primo soccorso, sa che una delle prime cose da fare se qualcuno perde i sensi – e non ha subito traumi che rendono poco sicuro il suo spostamento – è di metterlo disteso su un fianco, in posizione di sicurezza, proprio per evitare che possa soffocare.

Queste procedure consentono di mantenere le funzioni vitali. Prendere a schiaffi la persona in difficoltà o urlarle “resta con me”, “non mollare” e compagnia non serve a nulla.

Tra i miti che circolano c’è anche quello secondo cui una persona che ha subito traumi alla testa dovrebbe essere tenuta sveglia, in qualsiasi modo possibile, per evitare che perdendo i sensi possa finire in coma. Engber dice che quasi tutti i medici respingono questa teoria. Viene semmai consigliato di tanto in tanto di provare a risvegliare la persona che ha perso i sensi, per verificare che le sue condizioni non siano peggiorate, dato che mentre si è addormentati non ci si può rendere conto dello stato in cui ci si trova.

Nella finzione dei film e delle serie tv, alla persona ferita che non si deve assolutamente addormentare vengono fatti raccontare episodi della sua vita, ricordi e altre cose per mantenere la sua mente impegnata. Nella realtà, simili stratagemmi non servono a nulla se una persona sta per perdere i sensi. Solo in alcuni casi è opportuno urlare forte contro il paziente per cercare di indurre una reazione: i medici lo fanno per esempio quando vogliono verificare se la perdita dei sensi sia effettiva o se invece sia dovuta a una condizione psicologica, dovuta a un particolare stato di shock. Un forte rumore può indurre una reazione, che di norma non ha chi si trova in coma.

Nel 2006, conclude Engber, un gruppo di ricercatori dell’organizzazione no-profit statunitense Mayo Clinic ha fatto uno studio analizzando decine di film realizzati a partire dagli anni Settanta per capire come fossero rappresentati gli stati di coma. Solo il 7 per cento dei film analizzati dava una “rappresentazione ragionevolmente accurata di un coma in fase prolungata”.