Il finanziamento ai partiti in 5 punti

È stato abolito davvero? Chi può ricevere i soldi? Cosa ha fatto il governo e che cosa dovrebbe cambiare dopo il decreto legge approvato ieri

Venerdì 13 dicembre il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge per abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Enrico Letta ha subito dichiarato di aver mantenuto la sua promessa dell’abolizione entro la fine dell’anno, ma la sua scelta è stata anche molto criticata. Secondo alcuni l’abolizione è un “trucco” dei partiti. Senza arrivare a tanto, molti hanno sottolineato che non si tratta di una vera e propria abolizione, ma piuttosto di una diminuzione.

Ma che ha fatto il governo?
Venerdì 13 dicembre il Consiglio dei ministri ha modificato il testo di un disegno di legge sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti già approvato alla Camera il 16 ottobre e lo ha trasformato in un decreto legge che entrerà in vigore non appena sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (probabilmente lunedì).

Il decreto dovrà comunque essere confermato da un voto alle camere entro 60 giorni o sarà automaticamente abrogato. Il testo completo del decreto non è ancora stato pubblicato, quindi in questi giorni ci sono state alcune discussioni su cosa contenga davvero e su quanto sia diverso dal testo che aveva approvato la Camera.

Cosa c’è nel decreto?
Il finanziamento pubblico – che formalmente è un “rimborso elettorale”, ma ci torniamo – viene abolito, anche se non immediatamente. Nel 2014 i fondi erogati ai partiti saranno tagliati del 60 per cento, nel 2015 del 50 per cento e nel 2016 del 40 per cento. Dal 2017 questo tipo di finanziamenti saranno completamente aboliti.

A partire dalla dichiarazione dei redditi del giugno 2015, gli italiani potranno decidere di versare il due per mille della loro imposta sul reddito ai partiti. A differenza di quanto si era capito in un primo momento, il denaro di chi non deciderà di versare il due per mille ai partiti andrà allo Stato. Non sarà insomma diviso in proporzione come avviene per l’8 per mille destinato alle confessioni religiose (dove, se il 60 per cento di chi decide di versare i soldi viene dato alla Chiesa Cattolica, questa riceve anche il 60 per cento di chi non ha optato per nessuno).

Sarà possibile fare anche donazioni dirette ai partiti. I privati potranno donare fino a 300 mila euro l’anno, con una detrazione pari al 52 per cento per le donazioni tra i 500 e i 5 mila euro e con una detrazione del 26 per cento per gli importi fino ai 20 mila euro. Le persone giuridiche, cioè le società e gli enti, potranno dare fino a 100 mila euro l’anno.

Chi può ricevere questi nuovi finanziamenti?
Detta così, diventa piuttosto chiaro che il finanziamento pubblico non viene abolito del tutto: il due per mille e le detrazioni sulle donazioni dirette sono un mancato gettito fiscale per lo stato e quindi un costo per i cittadini. Sarebbe più corretto dire che il “finanziamento pubblico diretto” è stato abolito e più in generale che “il finanziamento pubblico” viene molto ridotto.

Ma chi può ricevere questi sgravi e questi finanziamenti? Nel testo con cui il governo ha presentato il decreto sono specificate due condizioni. Nella prima si elencano alcuni requisiti per aver accesso al due per mille. I partiti devono aver ottenuto alle ultime elezioni

almeno un rappresentante eletto alla Camera dei deputati o al Senato della Repubblica o in un’assemblea regionale, o [aver] presentato, nella stessa consultazione elettorale, candidati in almeno tre circoscrizioni per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati o in almeno tre del Senato della Repubblica o delle assemblee regionali, o in almeno una circoscrizione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia.

Per poter ottenere donazioni private, invece, i partiti dovranno rispondere a “requisiti minimi” di “democrazia interna” e avere bilanci certificati e accessibili sui propri siti.

Che cos’è il finanziamento pubblico ai partiti?
Il finanziamento pubblico ai partiti in Italia si chiama, più precisamente, “rimborso elettorale”. In teoria – molto in teoria – è proprio questo: un rimborso per le spese sostenute dai partiti in campagna elettorale. Si basa sul calcola di quanti elettori un partito è riuscito ad attirare (qui ne abbiamo spiegato più in dettaglio la storia e il funzionamento).

Il meccanismo funziona così: ogni anno in cui si svolgono elezioni viene costituito un fondo nel quale viene versata una certa cifra per ogni elettore (ogni avente diritto, quindi includendo anche chi si asterrà). Nel caso delle elezioni politiche, questa cifra viene versata una volta per la Camera e una per il Senato. Dopo le elezioni, il fondo così ottenuto viene diviso in proporzione tra tutti i partiti che alle elezioni hanno ottenuto almeno l’un per cento dei voti, e viene loro distribuito nel corso dei 5 anni della legislatura. Se la legislatura termina in anticipo lo stato continua a versare le rate di rimborsi, che quindi si sovrappongono ai rimborsi per le elezioni successive (è quello che è accaduto con le elezioni anticipate del 2008, ad esempio).

Da dove arrivano?
I rimborsi elettorali sono il risultato dell’abrogazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti. Nel 1993, dopo le inchieste della cosiddetta “Tangentopoli”, il 90,3 per cento dei votanti in un referendum scelse il “sì” all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. In realtà il referendum non ha fatto cambiare molto le cose. Come abbiamo visto, i rimborsi sono semplicemente un versamento di denaro ai partiti del tutto slegato dalle spese effettivamente sostenute. In molti hanno accusato la classe politica di aver utilizzato un trucco per reintrodurre il finanziamento pubblico abrogato dal referendum.

Dal 2007 l’entità dei rimborsi diretti è stata spesso diminuita: nel 2007, nel 2010 e nel 2011 vennero ridotti del 10 per cento. Con il governo Monti, nel 2012, sono stati dimezzati, passando da un totale di 182 milioni a 91 milioni.