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  • Martedì 24 settembre 2013

«La più bella partita di tennis di tutti i tempi»

Un libro racconta il match tra il tedesco von Cramm e Don Budge, americano, prima della Seconda guerra mondiale

Lo scorso luglio la casa editrice romana 66thA2nd ha pubblicato in Italia “Terribile splendore. La partita di tennis più bella di tutti i tempi, scritto nel 2009 dal giornalista – ex tennista – Marshall Jon Fisher, e tradotto in italiano da Paolo Cognetti e Federica Bonfanti. Il libro racconta una partita leggendaria giocata il 20 luglio del 1937 a Wimbledon, Londra, dallo statunitense Don Budge e dal tedesco Gottfried von Cramm nella finale interzone di Coppa Davis tra Germania e Stati Uniti. Quella tra von Cramm e Budge è considerata una delle rivalità del tennis più leggendarie di sempre: il barone von Cramm impersonava “l’eleganza dello sport disinteressato”, mentre Budge era un ragazzino di 22 anni “smilzo, rosso di capelli, figlio di un fattorino di Oakland”. Budge aveva battuto von Cramm poche settimane prima, nella finale del torneo di Wimbledon, ma quel giorno capì che il barone era «il vero re del tennis» e che quella che stava giocando era la partita della vita. Dal canto suo von Cramm giocava per la vita vera e propria: aveva rifiutato di entrare nel partito nazista, era stato interrogato dalla Gestapo a proposito della sua omosessualità e se fosse tornato in Germania da perdente avrebbe rischiato grosso. Oltre alla partita, infatti, Marshall racconta la guerra alle porte, mentre sul campo sventolavano vicine la svastica nazista, la bandiera del Regno Unito e quella degli Stati Uniti.

***

20 luglio 1937. Il barone Gottfried von Cramm lancia una Slazenger bianca un metro sopra la testa. La pallina sembra restare sospesa per un istante brevissimo, una luna lontana e immobile, prima che la racchetta di legno la strappi all’aria elettrica del Centre Court di Wimbledon, scagliando un servizio vincente contro J. Donald Budge. Il match decisivo di Coppa Davis tra Stati Uniti e Germania è cominciato, uno scontro che sarà ricordato a lungo come «la più bella partita di tennis di tutti i tempi». Quattordicimila spettatori – aristocratici in bella mostra, giornalisti sportivi, qualsiasi tifoso di tennis che sia riuscito a prendersi il martedì libero; la regina Mary e la sua corte, diversi membri del parlamento, diplomatici stranieri nel Royal Box –, tutti sussultano sui loro seggiolini quando finalmente il servizio di von Cramm squarcia la sottile membrana tra l’attesa e il compimento. Il rumore sordo delle corde di catgut contro la pallina segna l’ora: sono le quattro e cinquantasette del pomeriggio.

Era un altro giorno d’estate insolitamente radioso per Londra. In effetti, per tutto il mese era caduta a malapena qualche goccia di pioggia, e quel pomeriggio era di nuovo senza nuvole, il sole di mezza estate alto nel cielo, la colonnina di mercurio stabile sui venticinque gradi, proprio come il «Times» aveva promesso. Le previsioni del tempo, comunque, erano tra le poche notizie incoraggianti dei giornali del mattino, e anche il meteo aveva dovuto spartire la sua pagina con il necrologio di Amelia Earhart. L’aviatrice risultava dispersa da due settimane, dopo essere decollata da Lae, Papua Nuova Guinea, diretta all’isola di Howland, distante quattromila chilometri nell’oceano Pacifico. Aveva già realizzato per tre quarti quello che sarebbe dovuto essere il primo giro del mondo lungo l’Equatore, poi si era ritrovata ad affrontare un inatteso vento contrario ed era rimasta in volo per più di venti ore con il suo navigatore Fred Noonan, esaurendo la scorta di carburante e senza riuscire a raggiungere l’isola. Il presidente Roosevelt aveva inviato nove unità della marina militare e sessanta- sei aeromobili, per un valore complessivo di quattro milioni di dollari, ma il 18 luglio le ricerche furono definitivamente sospese.
La prima pagina non era più confortante. Con il «Times» del mattino appoggiato alle loro tazze di tè, i londinesi si erano ritrovati di fronte una raffica di titoli infausti: aspri scontri vicino a Madrid. Quasi un anno prima, il generale fascista Francisco Franco aveva condotto un improvvisato esercito ribelle, composto da mori e legionari stranieri, dal Marocco attraverso lo stretto di Gibilterra per rovesciare il governo repubblicano spagnolo, in carica da cinque anni. Ne era scaturita una cruenta guerra civile e, a un anno di distanza, ancora non se ne vedeva la fine.
Gli altri titoli di quel giorno – stato di alta tensione in Cina e costo del programma antiaereo – rammentavano ai lettori la guerra mai dichiarata dal Giappone contro la Cina, cupo presagio della minaccia che veniva da Est, e la crescente consapevolezza che l’onda d’urto di quella guerra si sarebbe abbattuta presto sull’isola britannica.
Il giorno prima il ministro degli Esteri Anthony Eden aveva tenuto un discorso ufficiale alla Camera dei comuni, commentando tutti quegli eventi. Ammise l’aspetto «intrinsecamente pericoloso» delle dinamiche in atto, ma rassicurò la Camera che la pace sarebbe prevalsa. Ignorando le proteste per il coinvolgimento tedesco nella guerra spagnola, e l’indignazione di Winston Churchill sui «cannoni carichi appena fuori da Gibilterra», Eden elogiò il nuovo patto navale tra sovietici e nazisti, così come il «sincero» desiderio del governo francese di «riconciliazione con la Germania e tra gli Stati europei». Più che spingere l’Europa sull’orlo di un’altra catastrofe, sostenne, la guerra spagnola aveva «mostrato a tutte le persone responsabili quanto fosse diventata terribile la guerra stessa».
Winston Churchill sorrise amaramente, mentre il deputato laburista Hugh Dalton accusò il governo di essere «un branco di struzzi […], ciechi di fronte alla nuova tecnica di aggressione praticata dalle forze fasciste in Spagna». Se quella tecnica si fosse dimostrata efficace, obiettò, senza dubbio l’avrebbero adottata presto in Europa centrale.

Turbata dalla minaccia di una guerra che da tempo era nell’aria, e dagli otto mesi di scandali reali e scontri politici, per Londra fu un sollievo tornare a dedicarsi al più affidabile dei passatempi: il tennis a Wimbledon.
Nel 1937 i campi in erba più curati e famosi del mondo, sede dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club, avrebbero ospitato un intero mese di tennis internazionale. Prima, naturalmente, ci sarebbero stati i Championships: il torneo conosciuto semplicemente come «Wimbledon». Poi l’All England Club avrebbe accolto la Coppa Davis, la competizione a squadre il cui nome ufficiale era International Lawn Tennis Championships. I turni preliminari si erano disputati in primavera, a Budapest e Berlino, Stoccolma e Belgrado, San Francisco e Città del Messico e in altre sedi, e avevano eletto le squadre vincitrici della zona europea e di quella americana. La Germania e gli Stati Uniti si sarebbero affrontate a Wimbledon nella finale interzone, per stabilire quale delle due avrebbe sfidato i campioni in carica. Alla fine, nel challenge round, la squadra britannica avrebbe difeso la coppa contro la vincente di quella sfida. La Gran Bretagna deteneva il titolo da quattro anni; questa volta però era opinione diffusa che senza Fred Perry, il tre volte campione di Wimbledon che essendo passato al professionismo non poteva più partecipare, la Gran Bretagna avesse ben poche chance. Il vero torneo si sarebbe deciso nella finale interzone e, per come andarono le cose, nel quinto e ultimo match, quello tra Budge e von Cramm.

In un’epoca in cui il tennis internazionale era in gran parte amatoriale, inclusa la Coppa Davis, Wimbledon e gli altri tornei più importanti, e gli atleti si affrontavano per la gloria e non per il denaro, la Coppa Davis era considerata il trofeo più prestigioso della disciplina e uno degli eventi più sentiti nell’intero mondo sportivo.
Tutto ebbe inizio nel 1900, quando uno studente di Harvard di nome Dwight Davis ordinò alla Shreve, Crump & Low Co. di Boston una coppa di duecentodiciassette once d’argento massiccio striato d’oro. Davis e i suoi compagni di corso, Holcombe Ward e Malcolm Whitman, erano appassionati di tennis su prato e avevano deciso di organizzare una gara internazionale a squadre. Il primo anno invitarono solo la Gran Bretagna, poiché non c’erano altri paesi con giocatori di un certo livello. La squadra inglese, di cui faceva parte il futuro tre volte campione di Wimbledon Arthur Gore, attraversò l’oceano solo per soccombere ai trentacinque gradi del Longwood Cricket Club, nei pressi di Boston, e al servizio «American Twist» dei ragazzi di Harvard, che Ward aveva appena messo a punto.
Lo stesso Davis partecipò solo a un’altra edizione della coppa, prima di cambiare vita. Nonostante il pessimo rendimento a Harvard (era molto più interessato al tennis che agli studi), nel 1925 diventò segretario alla Guerra e più tardi governatore generale delle Filippine. Ma la coppa da lui donata divenne il trofeo tennistico più ambito. Anche alla fine del secolo, nell’èra dei professionisti miliardari, campioni come John McEnroe e Arthur Ashe dichiararono che la vittoria della Coppa Davis aveva segnato il culmine delle loro carriere.
In Europa, in America e in Australia, negli anni Venti gli incontri di Coppa Davis si erano guadagnati un vasto pubblico, le prime pagine dei giornali e l’attenzione dei capi di Stato. «A volte mi chiedo se aver inventato questa competizione sia stata una buona idea» affermò Davis all’epoca. «È diventata una cosa troppo grossa». Certe volte la pressione di giocare per la patria, e sentire «vantaggio Stati Uniti» invece che il proprio nome, era troppo gravosa per i tennisti. Nel 1932 il campione del mondo, l’americano Ellsworth Vines, annichilì Bunny Austin nella finale di Wimbledon, concedendogli solo sei game in tre set. Ma nella Coppa Davis dell’anno seguente fu Vines a perdere contro Austin, sullo stesso campo e con un punteggio simile. Sempre nel 1932 il britannico Fred Perry, notoriamente imperturbabile, cominciò a vacillare proprio a un passo dalla vittoria contro il tedesco Daniel Prenn fino a perdere dopo aver condotto per 5-2 nel quinto set. Anche il grande Bill Tilden, l’incarnazione del tennis su prato negli anni Venti, sentiva quella pressione. «Giocare nei tornei è magnifico,» disse «ma le partite di Coppa Davis sono una tortura mentale. Ogni volta che dovevo giocare contro quei francesi in Coppa Davis soffrivo le pene dell’inferno per settimane».
Tilden, l’incontrastato campione del mondo, conservò quasi da solo il trofeo di Dwight Davis in mano americana dal 1920 al 1926. Ma alla fine, rallentato dall’età, perse proprio contro «quei francesi», e la coppa si trasferì a Parigi per sei anni. Poi Fred Perry e i suoi compagni inglesi riuscirono a conquistarla e la difesero con successo a Wimbledon per altri tre anni. Ora, per la prima volta in un decennio, gli americani avevano l’occasione di riportarsela a casa. E Tilden era lì, seduto a bordocampo ad applaudire come un tifoso. Ma non stava dalla parte che tutti si sarebbero aspettati. Dopo essersi offerto invano di allenare la squadra americana, negli ultimi due anni aveva dato una mano ai giocatori tedeschi. E da un decennio era buon amico di Gottfried von Cramm.
Il gioco di von Cramm non sarebbe stato così potente senza l’aiuto di Tilden, che a un punto cruciale della sua carriera «cambiò radicalmente la tecnica del [suo] rovescio», come ricordò un giorno von Cramm. In realtà, senza Tilden il tennis stesso non sarebbe stato quello che era nel 1937. Nessun giocatore, né prima né dopo, avrebbe influenzato a tal punto lo stile di gioco. Tilden aveva preso un aristocratico passatempo per gentiluomini e lo aveva trasformato in una disciplina per atleti di livello mondiale. Ad essere onesti, già Maurice «Red Mac» McLoughlin, detto «la Cometa della California», si era imposto mandando in visibilio le folle con il suo nuovo serve and volley aggressivo quando vinse i Campionati Usa nel 1912 e 1913. Ma la sua carriera fu abbreviata dalla Grande Guerra – non sarebbe stato più lo stesso dopo aver prestato servizio nel- l’esercito – e nel 1926, verso la fine dei suoi sei anni da re indiscusso, Tilden era definito all’unanimità «l’uomo che ha perfezionato, se non proprio inventato, quel moderno e snervante sport curiosamente conosciuto col nome improprio di tennis su prato […]. Big Bill ha apportato impressionanti cambi di ritmo, come il pallonetto liftato, i passanti di controbalzo e tutte le rotazioni che si posso- no imprimere alla palla. Grazie allo spirito innovatore di Tilden, il tennis è diventato una formidabile prova di velocità e forza in cui la resistenza, la rapidità di pensiero, il coraggio e la capacità di individuare i punti deboli dell’avversario si fondono nel ritratto fisico e psicologico del campione».
Tilden era anche stato, a partire dal 1931, l’attrazione principale, il capocomico e l’impresario del circo nascente (e non del tutto rispettabile) del tennis professionistico. Prima di entrarci, a trentasette anni, lui stesso considerava i professionisti come una via di mezzo tra domestici e prostitute. Ma il suo punto di vista cambiò radicalmente quando il tennis cominciò a fruttargli un mucchio di soldi. Prima di Tilden i tennisti restavano dilettanti per tutta la carriera, per poi dedicarsi ad altro quando il loro rendimento cominciava a calare. Lui invece era così forte da potersi permettere una lunga e gloriosa carriera amatoriale, poi, giunto all’età in cui perfino i migliori si ritiravano, si arricchì passando al professionismo per altri dieci anni. Il suo esempio convinse i campioni venuti dopo di lui ad abbandonare il dilettantismo ben più giovani. Negli anni successivi, infatti, sia Vines sia Perry diventarono pro all’apice delle loro carriere. E si vociferava che, dopo appena una vittoria in un torneo importante, anche Budge avrebbe fatto la stessa scelta. Nel giro di pochi mesi il giovanotto sarebbe stato tentato da un’offerta da capogiro del promoter C.C. «Cash and Carry» Pyle.

Alcuni ambienti avanzavano l’idea di un tennis «open», con i tornei maggiori aperti a professionisti e dilettanti, ma questa novità non sarebbe stata introdotta che una trentina d’anni dopo. Per il momento i professionisti erano banditi, e la gloria era riservata ai dilettanti. E la partita di quel giorno avrebbe garantito un lustro immediato che con il passare dei decenni sarebbe diventato sempre più scintillante. La giovane stella americana, in procinto di cogliere tutte le ricchezze che il suo talento gli avrebbe portato in dono, contro il più irriducibile dei dilettanti: l’aristocratico europeo che non sarebbe mai diventato pro e che giocava in nome della pura bellezza del suo sport. Fu un pomeriggio di tensione per Tilden, von Cramm e Budge. Sia Tilden sia von Cramm sapevano quanto quel match fosse decisivo per il tedesco, che era entrato in conflitto con il governo nazista. Come aveva confidato a Tilden, von Cramm aveva ragione di credere che lo tenessero d’occhio, e solo il ritorno in Germania con il trofeo gli avrebbe garantito la salvezza.
E nonostante i rapporti per nulla idilliaci tra Tilden e le alte sfere del tennis americano, per Tilden doveva essere perlomeno scomodo sedersi «dall’altra parte» in un match così importante, dopo esser stato per tanto tempo il faro della squadra. A quarantaquattro anni giocava ancora da professionista, e avrebbe continuato a lungo, ma gli anni d’oro erano ormai alle spalle. Era rimasto senza soldi e senza amici. Assistendo a quel match, l’apoteosi dello sport che una volta aveva dominato, in qualche angolo della mente doveva percepire che la sua vita stesse subendo un lento, irreversibile processo di sfacelo.
Per Don Budge era semplicemente il match più importante della sua vita. Nessuno sarebbe potuto essere più diverso dall’elegante aristocratico tedesco, o dal nobile e dispotico Tilden che spiccava lassù in tribuna, più di questo ragazzo smilzo, rosso di capelli, figlio di un fattorino di Oakland. A ventidue anni aveva appena raggiunto l’apice del suo gioco, piegando von Cramm due settimane prima per diventare il campione di Wimbledon e, ufficiosamente, del mondo. Ma mentre facevano il loro ingresso in campo, quel giorno, Budge capì che il barone era l’oggetto dell’adorazione del pubblico, il vero re del tennis. E campione di Wimbledon o no, nel 1937 il gioiello della corona del tennis era ancora la Coppa Davis.
Era un grande evento per tutti gli appassionati di sport. Negli Stati Uniti quell’estate Yankees e Giants volavano verso la resa dei conti autunnale delle World Series, la finalissima del baseball. Seabiscuit correva per la prima volta negli ippodromi della East Coast e faceva incetta di premi, spingendo i cronisti a favoleggiare di una sfida del secolo contro l’imbattibile War Admiral. Il 22 giugno Joe Louis, che l’estate precedente aveva subito un’inattesa e sbalorditi- va sconfitta per mano del tedesco Max Schmeling, sfidò James J. Braddock a Chicago e vinse per ko all’ottavo round, conquistando il titolo dei pesi massimi che avrebbe mantenuto per i successivi dodici anni. Ma a metà luglio non c’erano eventi sportivi più importanti del match Budge-von Cramm.

Quanto alla Germania, non era mai riuscita ad approdare al challenge round. La sua prima grande chance risaliva al luglio del 1914: con la guerra alle porte, mentre il resto della squadra salpava verso casa, Otto Froitzheim e Oskar Kreuzer erano rimasti a Pittsburgh per disputare la semifinale contro l’Australia. La guerra era sulla bocca di tutti, il cameratismo internazionale tipico della Coppa Davis era assente, dato che le squadre, fuori dal campo, se ne stavano per conto loro. I tedeschi annunciarono che avrebbero lasciato il paese allo scoppio della guerra, che le partite fossero terminate o no. Di fatto, la parola «guerra» corse lungo le linee telegrafiche attraverso l’Atlantico durante l’ultimo match, ma i giornalisti in tribuna stampa non potevano alzarsi a gridare la notizia al pubblico prima che la partita fosse finita. Gli australiani, che avrebbero riconquistato la coppa contro gli americani la settimana successiva, festeggiarono mentre Froitzheim e Kreuzer andavano dritti a imbarcarsi. La loro nave venne affondata al largo di Gibilterra e i due furono fatti prigionieri dagli inglesi. Restarono in un campo di prigionia fino all’armistizio.
Dopo la guerra la Germania fu bandita dalle competizioni internazionali dalla International Lawn Tennis Federation. Fu riammessa nel 1927 e nei successivi dieci anni raggiunse la finale interzone in quattro allettanti occasioni, ma non fu mai in grado di andare oltre. Nel 1937, con von Cramm e il potente Henner Henkel, i tedeschi erano convinti di avere la più grande chance di sempre.
Gli incontri dei primi due giorni andarono come ci si aspettava. Budge e von Cramm, i più forti tennisti al mondo tra i dilettanti, vinsero facilmente i loro singolari contro Henkel e Bitsy Grant. Nel doppio, Budge e Gene Mako sconfissero von Cramm e Henkel in un match tirato, proprio come quello di qualche settimana prima al torneo di Wimbledon. Infine, quello stesso giorno, Henkel su- però Grant e portò il punteggio sul due pari. Il quinto e decisivo match spettava quindi ai due tennisti più forti. Considerata la relativa debolezza degli inglesi, lo scontro Budge-von Cramm avrebbe quasi certamente eletto la squadra vincitrice.
I tifosi americani avevano tutte le ragioni del mondo per essere nervosi. Benché Budge fosse il favorito, non c’era niente di scontato in una competizione che si era ridotta a un unico match tra i primi due tennisti del pianeta. «La vittoria di Budge era sicurissima, anzi sicura, anzi quasi sicura, anzi molto probabile, anzi possibile, anzi una vana speranza» intonava «American Lawn Tennis», la bibbia settimanale degli appassionati americani. Negli Stati Uniti migliaia di tifosi restarono a casa per ascoltare la cronaca del match alla radio. Molti altri la sentirono dall’ufficio. Molti altri ancora «si affidarono alle telescriventi, alle redazioni dei giornali, agli amici che abitavano a Wall Street per avere le ultime notizie». Così tanta gente trascurò il proprio lavoro per sintonizzarsi sulla diretta che, a quanto pare, alla borsa di New York la seduta di quel martedì fu particolarmente tranquilla.