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  • Venerdì 9 agosto 2013

“Ho cambiato idea sulla marijuana”

Sanjay Gupta, popolare giornalista medico di CNN, scrive che fin qui sulla cannabis non aveva "guardato abbastanza lontano", e si scusa

Dr. Sanjay Gupta, Chief Medical Correspondent for CNN, attends the Clinton Global Initiative, Wednesday, Sept. 22, 2010, in New York. (AP Photo/Mark Lennihan)
Dr. Sanjay Gupta, Chief Medical Correspondent for CNN, attends the Clinton Global Initiative, Wednesday, Sept. 22, 2010, in New York. (AP Photo/Mark Lennihan)

Sanjay Gupta è un neurochirurgo e un giornalista, a capo del servizio Medicina, salute e benessere di CNN. Per i suoi programmi e reportage ha vinto diversi premi; ha preso parte a uno dei più prestigiosi programmi governativi americani, il White House Fellows; nel 2010 la rivista Forbes lo ha indicato tra le dieci celebrità più influenti e sempre nel 2010 fece molto parlare di sé quando andò ad Haiti per raccontare il devastante terremoto in cui morirono quasi 250 mila persone ma si mise subito a lavorare in un ospedale da campo e annullò il programma. Insomma, negli Stati Uniti è un giornalista rispettato e famoso.

Ieri il sito di CNN ha pubblicato un articolo di Sanjay Gupta intitolato “Why I changed my mind on weed” – Perché ho cambiato idea sulla marijuana – in cui spiega come e perché ha cambiato idea sull’uso della cannabis per scopi medici e ammette che «in alcuni casi è l’unica cosa che può funzionare». Gupta racconta di aver lavorato a un nuovo documentario – “Weed”, che andrà in onda domenica prossima – e che per realizzarlo nell’ultimo anno ha viaggiato in tutto il mondo per intervistare medici, esperti, produttori e pazienti: «Quello che ho scoperto è stato sorprendete». Gupta non solo ammette di essersi sbagliato, ma rivolge pubblicamente le proprie scuse:

«Siamo stati terribilmente e sistematicamente ingannati per quasi 70 anni negli Stati Uniti, e mi scuso per il ruolo che ho avuto in questo. (…) Mi scuso perché non ho cercato bene, finora. Non ho guardato abbastanza lontano. Ci sono tanti rapporti provenienti da piccoli laboratori di altri paesi che sono davvero notevoli. Il coro dei pazienti che hanno ottenuto dei miglioramenti grazie alla cannabis è forte».

Il primo stato americano ad aver legalizzato la marijuana per uso terapeutico è la California, nel 1996. Da lì in poi in altri 19 stati più il District of Columbia si è votato per approvare l’uso medico della marijuana. La marijuana contiene circa quattrocento diversi elementi chimici e il suo principale agente è il tetraidrocannabinolo (THC), che interagisce con le cellule nervose delle aeree cerebrali che presiedono il coordinamento motorio, il piacere, la memoria, il pensiero, la percezione sensoriale, l’appetito e il dolore. Gli scienziati a favore della legalizzazione fanno notare che la marijuana ha degli effetti positivi ed è molto meno dannosa di altre sostanze già ampiamente legalizzate. Quelli contrari sottolineano invece i rischi di dipendenza e alcune disfunzioni cognitive associate all’uso prolungato della sostanza.

Gupta afferma però che entrambe queste argomentazioni scientifiche ufficiali sulla non validità della marijuana a scopo terapeutico sono infondate e che, di conseguenza, la classificazione della marijuana come una delle droghe più pericolose e quindi non utilizzabile sul piano medico – come stabilito dalla Drug Enforcement Agency, l’agenzia anti-droga statunitense – non sta in piedi.

Gupta cita una lettera scritta il 14 agosto 1970 dal dottor Roger O. Egeberg, sottosegretario presso il Dipartimento di Salute, Istruzione e Welfare durante la presidenza Nixon. Egeberg raccomanda che la marijuana continui a essere classificata come “Schedule I controlled substance”, nella fascia più alta. Rientrano in questa categoria sostanze che hanno un certo potenziale per l’abuso, non hanno un utilizzo medico approvato e la cui sicurezza d’uso non è accertata, neppure sotto supervisione medica: oltre la marijuana ci sono eroina e LSD. Dal 1970 la situazione non è cambiata. Gupta fa però notare che Egeberg aveva scelto «con cura le sue parole» dicendo che:

«Dal momento che vi è ancora un notevole vuoto nella nostra conoscenza della pianta e degli effetti del principio attivo in essa contenuto, la nostra raccomandazione è che la marijuana sia conservata all’interno della fascia I almeno fino al completamento di alcuni studi in corso per risolvere il problema».

Dunque, precisa Gupta, fu a causa dell’assenza di argomenti scientifici che la marijuana fu classificata in quel modo e che, in realtà, Egeberg aveva già allora a sua disposizione delle ricerche che avevano concluso come la marijuana non portasse a significative dipendenze nel senso medico del termine e come non vi fossero prove che facilitasse il passaggio e la dipendenza ad altre sostanze, come morfina, eroina o cocaina. Scrive Gupta: «Ora sappiamo che, sebbene le stime possano variare, la marijuana porta alla dipendenza in circa il 9-10 per cento dei suoi consumatori in età adulta. La cocaina, sostanza classificata nella fascia 2 provoca dipendenza nel 20 per cento dei casi, l’eroina nel 25 per cento. Il peggiore è il tabacco dove il numero è vicino al 30 per cento».

Inoltre, precisa Gupta, la letteratura scientifica sui benefici medici della marijuana è stata prodotta tra il 1840 e il 1930. I lavori più recenti si concentrano sui danni prodotti da questa sostanza mentre solo il 6 per cento di occupa dei suoi benefici a livello medico. Questo secondo Gupta produce un notevole squilibrio nella discussione. Per condurre negli Stati Uniti degli studi sulla marijuana serve, innanzitutto, la marijuana: ma spesso è illegale ottenerla e produrla. Si può ottenere da una speciale coltivazione nel Mississippi, ma è complicato: quando Gupta dice di averla visitata per il suo documentario, non ha trovato alcuna coltivazione. Il secondo problema è ottenere le autorizzazioni: mentre per le altre ricerche ci sono istituti specifici (una ricerca sul cancro può essere per esempio approvata dal National Cancer Institute) questo non vale per la marijuana. Il National Institute on Drug Abuse è un’organizzazione che studia fondamentalmente gli effetti dell’abuso e non i benefici. Insomma, conclude Gupta, negli Stati Uniti c’è un vuoto di conoscenza mentre in altri paesi si procede nella ricerca:

«Per quanto riguarda il dottor Roger Egeberg, che ha scritto quella lettera nel 1970, è morto 16 anni fa. Chissà cosa ne penserebbe oggi, se fosse vivo».