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  • Venerdì 4 gennaio 2013

Codice 12–9

Le storie dolorose dei macchinisti della metropolitana di New York e di come fanno i conti con una delle cose che temono di più: vedere una persona sui binari

Nelle ultime settimane a New York si è tornati a discutere molto dei suicidi e delle morti in metropolitana in seguito a due casi di cronaca, che sono stati ripresi e raccontati con molti dettagli da televisioni e giornali. Il 4 dicembre 2012 il New York Post ha pubblicato una grande foto in prima pagina che mostrava un uomo caduto sui binari, che sarebbe morto pochi istanti dopo travolto da un convoglio in arrivo in stazione. A fine dicembre una donna è stata arrestata, sempre nell’area di New York, dopo avere confessato di avere spinto un uomo sui binari della metropolitana causandone la morte.

In questi e in molti altri casi di cronaca simili, e non solo negli Stati Uniti, ci si occupa sempre delle vittime, e mai dei conducenti che si devono confrontare con il trauma di essere stati la causa ultima della morte di una persona. Matt Flegenheimer del New York Times ha incontrato alcuni di questi macchinisti e ha raccolto le loro storie, che insieme con i dati sul numero di suicidi nella metropolitana rendono bene l’idea del fenomeno che dura praticamente da quando fu inventata la metropolitana, e ancora prima il treno.

Tracy Moore ha 45 anni, vive a Staten Island e una mattina di dicembre del 2005 era alla guida di un convoglio della linea R della metropolitana. Subito dopo una curva, all’ingresso nella stazione di Steinway Street, nel distretto del Queens, notò che c’era un uomo in giacca e cravatta sulla pensilina. Si accorse immediatamente che c’era qualcosa di strano, ma quando l’uomo saltò sui binari non poté fare nulla: il treno stava ancora viaggiando a 50 chilometri orari.

Per sei mesi da quel giorno, Moore dice che non pensò ad altro che ai dettagli dell’incidente: l’uomo che guardava verso il treno, che saltava repentinamente sui binari elettrificati e il convoglio che non aveva potuto fermare per tempo. Non riusciva a dormire più di due ore per volta e aveva subìto un chiaro crollo psicologico. Le furono prescritti sonniferi per facilitare il sonno e per quasi un anno Moore non fu in grado di tornare al lavoro. Poi i giorni di malattia finirono, la conducente si fece coraggio e tornò a fare il suo lavoro.

Due settimane dopo il suo ritorno, racconta, stava nuovamente lavorando sulla linea R. Il treno attraversava uno dei tunnel nella zona del Queens ai cinquanta orari e, per qualche motivo, Moore chiese a un supervisore il permesso di ridurre la velocità. Le fu detto di rallentare, se avvertiva la necessità di farlo. Pochi istanti dopo, superata una curva, si trovò davanti un operaio che stava lavorando sulla linea e che fece in tempo per pochi istanti a non essere travolto dal convoglio. «Se non avessi rallentato, sarebbe sicuramente morto. Forse è stato il mio sesto senso. Dio sapeva che non avrei potuto sopportare un’altra cosa simile. Sarei finita al manicomio», ha raccontato Moore al giornale.

In media ogni giorno cinque milioni di persone utilizzano la metropolitana per spostarsi nella grande conurbazione di New York. La maggior parte dei passeggeri è inconsapevole di salire su convogli condotti a volte da macchinisti con alle spalle storie difficili e dolorose come quella di Moore. Solo nel 2012 le persone morte nella metropolitana sono state 55, una media di più di una persona alla settimana. Nel 2011 erano state otto in meno. I macchinisti sanno che un codice “12-9”, quello che indica un incidente a un passeggero sui binari, potrebbe capitare a molti di loro nel corso di un’intera carriera.

Alcuni macchinisti hanno spiegato al New York Times di essersi dovuti confrontare con più di un incidente. Kevin Harrington ha 61 anni e dice di ricordare almeno dieci casi che lo hanno riguardato in prima persona del 1984 a oggi, uno dei quali fatale. Travolgere e causare la morte di una persona con il proprio treno comporta un grande stress sul momento, e a volte stati di shock imprevedibili.

Il macchinista Mike Casella, che oggi ha 59 anni, era alla guida di un convoglio della linea G quando 25 anni fa travolse una persona uccidendola. Entrò in uno stato di shock che gli causò una paralisi temporanea dalla vita in giù. Riuscì a uscire dall’area di guida aiutandosi con la forza delle braccia e si sedette su uno dei sedili dei passeggeri, in attesa di aiuto. Fu trasportato e ricoverato in ospedale per un giorno e, come altri suoi colleghi, ebbe bisogno in seguito di un aiuto psicologico.

Howard Rombom è uno psicologo che con il passare degli anni si è specializzato nei traumi che riguardano i macchinisti. Al New York Times ha spiegato che la prima difficoltà per i conducenti è quella di rendersi conto che una persona è morta davanti ai loro occhi, ma non per colpa loro. Devono capire che c’è una possibilità che nella loro carriera possa succedere una cosa simile, che fa parte dei rischi del mestiere. I tempi di recupero dopo un incidente sono soggettivi e variano da persona a persona.

Alcuni macchinisti, spiega Rombom, dicono di non essere entrati immediatamente in stato di shock: sono istruiti a compiere alcune operazioni fondamentali che li tiene impegnati e almeno inizialmente distaccati. Devono mettere il treno in fermata di emergenza, verificare se sia possibile far scendere da alcune uscite i passeggeri e contattare la centrale operativa per segnalare l’incidente e fare scattare la seconda fase dell’emergenza. Se possibile, ai macchinisti viene anche richiesto di “osservare le conseguenze dell’impatto”, un’operazione spesso macabra, ma necessaria per verificare se la persona sui binari sia deceduta o meno, e se possa avere quindi bisogno di soccorsi immediati. Entro due ore dall’incidente i macchinisti devono anche fare un test delle urine per escludere l’assunzione di alcol o droghe prima o durante il turno di lavoro.

Nel corso degli anni sono stati anche codificati diritti e procedure per i macchinisti che hanno avuto questo tipo di incidenti. Se il tuo convoglio ha ucciso una persona hai diritto a tre giorni di riposo, mentre se un passeggero rimane ferito si valuta caso per caso. Per incidenti con ferite lievi, ai macchinisti è richiesto di continuare a lavorare da subito nei giorni seguenti. Nei casi più gravi possono mettersi in malattia e non è raro che questa condizione vada avanti per settimane, se non per mesi.

Anche in Italia ogni anno si verificano diversi casi di suicidio o morti sui binari della metropolitana, soprattutto nelle città di Milano e Roma. Trovare statistiche ufficiali sul numero di incidenti è difficile, così come non è sempre possibile determinare con chiarezza le loro dinamiche. L’adozione di barriere in stazione, che isolino l’area dei binari con varchi che si aprono in corrispondenza delle porte del treno solo quando il convoglio compie la fermata, è in discussione da tempo e in alcuni casi sono state avviate iniziative sperimentali.

Dotare tutte le stazioni di varchi automatici comporterebbe un alto costo e porrebbe in alcuni casi anche problemi tecnici non banali da risolvere. Le linee metropolitane di concezione più recente contemplano, tuttavia, la possibilità di adottare una simile soluzione. L’unica linea di metropolitana esistente a Torino, per esempio, ha i binari completamente isolati dalle pensiline in tutte le sue stazioni. I varchi si aprono quando i treni automatici, cioè senza conducente, si fermano in stazione per fare salire e scendere i passeggeri.