Come misuriamo la ricchezza

In Italia usiamo una cosa che si chiama ISEE: ha cambiato il funzionamento del welfare ma ha diversi punti critici, che il governo si è impegnato ad affrontare presto

di Marco Surace - @suracemarco

Chiunque negli ultimi anni abbia fatto richiesta di servizi di pubblica utilità (asilo nido, mensa scolastica, voucher per l’acquisto dei libri di testo, eccetera) o di prestazioni assistenziali legate al reddito (assegni sociali, familiari, compartecipazione ai servizi socio-sanitari, eccetera) ha avuto in qualche modo a che fare con un parametro di riferimento per il reddito complessivo del proprio nucleo familiare. È noto comunemente come ISEE, acronimo che sta per “Indicatore della Situazione Economica Equivalente”.

Il concetto che sta dietro l’ISEE è quello che sta dietro l’idea delle unità di misura in generale. Solo che mentre tutti – inglesi permettendo – usiamo il metro per misurare le lunghezze, e quindi sappiamo a cosa si riferisce chi dice che un’auto è lunga 4 metri, misurare la ricchezza è più complesso: quando diciamo che una persona, o meglio una famiglia, è ricca, a cosa ci riferiamo? Allo stipendio mensile che percepisce chi nella famiglia lavora? O agli immobili di cui è proprietaria? O all’entità del conto in banca? Realisticamente a una combinazione di queste e altre voci, rapportate alla dimensione del nucleo familiare (banalmente, lo stesso stipendio può garantire un tenore di vita da benestante per un single e da indigente con moglie e tre figli a carico). L’ISEE cerca di sintetizzare tutto questo.

Da dove viene
L’idea di introdurre un parametro per misurare la situazione economica complessiva di un nucleo familiare, superando la semplice rilevazione del 730 (il modello per la dichiarazione dei redditi), nasce dall’intuizione di alcuni ricercatori dell’università di Trento, che provarono nel 1992 a creare una sorta di “redditometro” per decidere l’assegnazione delle borse di studio universitarie, vedendo che negli anni precedenti i beneficiari erano spesso figli di lavoratori autonomi. I risultati furono sorprendenti: i ragazzi appartenenti a famiglie con lavoratori autonomi scesero al 3 per cento, lasciando la parte più consistente dei contributi alle famiglie più bisognose con reddito da lavoro dipendente. Da allora Trento, e in particolare Clesius, la start-up nata da quell’idea, hanno fatto scuola e continuano a essere il punto di riferimento nazionale in materia.

La riforma universitaria del 1994 fece proprio tale concetto per l’erogazione delle borse di studio e le agevolazioni sulle tasse di iscrizione, allargando la valutazione della condizione economica e basandola, oltre che sul reddito, su patrimonio e composizione del nucleo familiare, introducendo l’utilizzo dell’autocertificazione per la presentazione della domanda. Lo strumento ebbe successo, dato che la fotografia delle capacità economiche della famiglia che era in grado di restituire rispetto alla semplice dichiarazione dei redditi rivoluzionava le metodologie di valutazione applicate fino a quel momento nella pubblica amministrazione. Di lì a poco si sarebbe iniziato ad utilizzare il modello per trovare una miglior distribuzione dei benefici afferenti le politiche sociali, ma anche per calcolare meglio le singole capacità economiche. In teoria anche per scovare gli evasori, se non fosse che la raccolta delle domande e dei dati si basa su autocertificazioni.

Il Dlgs. 109/98 sancisce la nascita, in via sperimentale, dell’ISEE come criterio unificato di “valutazione della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni o servizi sociali o assistenziali non destinati alla generalità dei soggetti o comunque collegati nella misura o nel costo a determinate situazioni economiche”. In pratica si definisce una formula, piuttosto semplice, che mette insieme, oltre al reddito complessivo ai fini IRPEF e al reddito delle attività finanziarie, il patrimonio immobiliare (quello su cui allora si pagava l’ICI e ora l’IMU) decurtato di eventuali mutui e il patrimonio mobiliare (conti correnti, libretti di deposito), entrambi con una certa franchigia e solo per il 20 per cento del loro valore. L’importo così calcolato viene detto ISE (Indicatore della Situazione Economica), viene diviso per un parametro legato, secondo una Scala di Equivalenza (SE), al numero di componenti del nucleo familiare, tenendo conto delle economie di scala che derivano dalla convivenza e di alcune particolari condizioni del nucleo familiare che comportano maggiori spese o disagi (presenza di persone con disabilità, nuclei monogenitore, entrambi i genitori lavoratori). La SE assume valori meno che proporzionali, a partire da 1 (nuclei mono-persona) a 2,04 (3 persone), a 2,85 (5 persone), e così via, al netto delle eventuali maggiorazioni.

Il Dlgs. 130/00 rese obbligatorio l’utilizzo dell’ISEE a partire dal gennaio 2002 per gli enti erogatori di servizi, creando una banca dati ISEE presso l’INPS e modificandone alcuni aspetti legati alle detrazioni per la prima casa e alle maggiorazioni della SE, poi ritoccate pochissimo da norme successive. Dal 2001, gli interventi per il diritto agli studi universitari sono regolati dall’ISEEU, che calcola diversamente il peso del reddito dei familiari. Così la procedura di andare presso un CAF (Centro Assistenza Fiscale), l’INPS o direttamente il Comune per compilare l’ISEE da presentare per l’erogazione di un servizio è divenuta sempre più normale e diffusa.

Ma quanto è lunga la “via sperimentale”?
Dopo quasi vent’anni di vita, e 14 di attuazione diffusa, l’ISEE ha rivelato diverse criticità (pdf) e aspetti da correggere, soprattutto sul lato dell’equità, spesso penalizzata a vantaggio della semplicità dello strumento (d’altra parte è un’unità di misura ancora giovane: il metro, per dire, ha oltre 200 anni). È ormai diffusa la convinzione che serva una modifica profonda dei suoi contenuti, e numerose proposte sono arrivate da istituti di ricerca e associazioni: mentre alcuni enti locali ne hanno ritoccato in modo indipendente le caratteristiche, il comune di Parma ha introdotto il famoso “Quoziente Familiare” e la provincia autonoma di Trento – potere dell’autonomia – ha direttamente abolito l’ISEE passando all’ICEF, Indicatore della Condizione Economica Familiare, che almeno sulla carta corregge in modo efficace tutte le storture del precedente strumento. Un’indubbia spinta all’aggiornamento dell’ISEE arriva anche dalla forte diminuzione di fondi per
il welfare – si è passato da oltre 2 miliardi di euro del 2007 ai circa 200 milioni del 2012 – che obbliga all’adozione di criteri selettivi più che distributivi.

I problemi dell’ISEE
Nel calcolo della Situazione Economica, infatti, le principali criticità rilevate negli anni sono state queste:

– dura un anno e si riferisce all’anno fiscale precedente, non tiene quindi conto di sostanziali modificazioni reddituali dovute alla perdita del lavoro, né obbliga al ricalcolo in caso inverso, ovvero in cui la situazione cambi significativamente in meglio, per esempio nel caso di una madre disoccupata che trova un lavoro ben retribuito;

– il rapporto tra il peso del reddito e del patrimonio nel calcolo complessivo è fortemente sbilanciato verso il primo (pesa circa quattro volte di più);

– le giacenze presso i conti corrente sono valutate al 31/12 dell’anno precedente, invece che sulla giacenza media nell’anno, come dovrebbe essere: basta effettuare un prelievo consistente il 30 dicembre e riversarlo il 2 gennaio per risultare quasi nullatenente;

– non vengono calcolate le borse di studio, di dottorato e gli assegni di ricerca, gli assegni di mantenimento per i figli, gli assegni di invalidità, le pensioni estere, i redditi da rendita fondiaria in regime di cedolare secca e in generale tutto il reddito non assoggettato all’IRPEF;

– non esistono Indicatori di benessere (tipo redditometri, in base ad esempio ai consumi) da affiancare per capire eventuali tenori di vita incompatibili con il valore risultante;

– si considera il reddito fiscale (lordo) e non quello disponibile (netto);

– infine, l’individuazione del nucleo familiare di riferimento risulta spesso complessa, tutte le volte che si passa dal cosiddetto “focolare domestico”, il classico padre-madre-figli, al “fuoco incrociato domestico”, in cui in casa vive una madre con due figli minori nati dall’ex marito e comproprietario della casa, che paga l’assegno di mantenimento, un compagno da cui ha avuto un altro figlio e la figlia di questo ormai maggiorenne e lavoratrice. Oppure la definizione dei nuclei di riferimento per un anziano che vive con una pensione media, in comodato gratuito nella casa che ha già passato ai figli e a cui ha già ceduto il suo patrimonio mobiliare magari ingente. In questi casi il calcolo rischia di essere non semplice e nemmeno equo.

Il caso di Parma e il Quoziente Familiare
I valori della Scala di Equivalenza hanno suscitato molto dibattito anche in campo politico nazionale, soprattutto da parte di quelle forze politiche che richiedevano “maggiore attenzione per le famiglie”, in particolar modo quelle numerose. Parma in pratica ha ridefinito tali valori (pdf), aumentando il peso dei figli e differenziando in base alla tipologia di lavoro dei genitori (dipendenti, pensionati, autonomi). L’importanza della SE è chiara: determina direttamente, a parità di reddito e patrimonio, la situazione di benessere familiare, cercando di tradurre in maniera oggettiva e trasparente le caratteristiche di un nucleo familiare.

Questa scelta ha suscitato sia critiche dal punto di vista economico, da chi sostiene che sia un disincentivo al lavoro femminile e un vantaggio per i redditi medio-alti, dato che maggiore è il reddito più grande è il vantaggio per ogni figlio, sia dal punto di vista socio-politico. Questi ultimi evidenziano come il dibattito internazionale sulle SE mostri che, preso atto dell’assunto per cui “quanto maggiore è il numero di componenti del nucleo familiare, tanto maggiore sarà la quantità di risorse necessaria per mantenere un certo standard di vita”, pesi maggiori per i componenti sono tipici dei paesi poveri e in via di sviluppo, in cui le spese – più che altro legate ai consumi alimentari – sono quasi proporzionali ai componenti, cosa che non accade nei paesi occidentali, dove oltre il 50 per cento delle spese sono relative all’abitazione e ai trasporti. Nella comparazione dettagliata, effettuata proprio da Clesius, si nota come la SE italiana è molto vicina a quelle di Stati Uniti e Regno Unito, mentre il Quoziente Parma assume valori tipici a quelli dello Sri Lanka. Inoltre, gli effetti pratici sono consistiti nel tutelare maggiormente famiglie a reddito medio, lasciando inalterate le altre fasce, col risultato di un maggiore esborso netto per l’Amministrazione. Forse perché si sono confuse le politiche di sostegno alle famiglie numerose con la definizione di unità di misura del reddito.

L’intervento del governo Monti
Il dibattito sull’ISEE è attuale in queste settimane perché l’articolo 6 del decreto cosiddetto “salva Italia”, la manovra del governo Monti, impegna il presidente del Consiglio dei ministri a varare entro il 31 maggio 2012 un decreto per rivedere “le modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)” con lo scopo preciso di:

– adottare una definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme anche se esenti da imposizione fiscale e che tenga conto delle quote di patrimonio e di reddito dei diversi componenti della famiglia nonché dei pesi dei carichi familiari, in particolare dei figli successivi al secondo e di persone disabili a carico;

– migliorare la capacità selettiva dell’indicatore, valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale, sita sia in Italia sia all’estero, al netto del debito residuo per l’acquisto della stessa e tenuto conto delle imposte relative;

– permettere una differenziazione dell’indicatore per le diverse tipologie di prestazioni.

Un conto però è l’equità nella definizione, un conto è la sua verifica. Un classico punto debole dell’ISEE, infatti, è lo stesso di molti altri strumenti: i controlli. Per almeno tre ragioni. In primo luogo, al cittadino che autocertifica la dichiarazione vengono richiesti durante la compilazione dati che la Pubblica Amministrazione ha già: il reddito dichiarato con il 730 all’Agenzia delle Entrate, per esempio, o la proprietà di fabbricati e terreni registrati al Catasto. Questo provoca inefficienza e possibilità di errori involontari (Trento ha posto rimedio a questo problema fornendo direttamente un ISEE precompilato con i dati disponibili). In secondo luogo, chi non paga le tasse ottiene un ISEE basso e quindi accede ad agevolazioni varie: si tratta di un’evasione doppia, non si contribuisce al gettito nazionale ma se ne beneficia direttamente senza merito, una stortura intollerabile. In terzo luogo, non esistono, o non sono collegate a dovere, banche dati per incrociare le varie grandezze, anche in base ai consumi e all’anagrafe bancaria (non più coperta da segreto dallo scorso gennaio), che semplificherebbero i controlli e disincentiverebbero le false dichiarazioni.

Il decreto citato punta infatti, tra l’altro, a “rafforzare il sistema dei controlli, anche attraverso la condivisione degli archivi cui accedono la pubblica amministrazione e gli enti pubblici e prevedendo la costituzione di una banca dati delle prestazioni agevolate”. Alcune modifiche alle possibilità di controllo sono state previste nel 2010, ma al momento con scarsa efficacia. L’obiettivo finale su questo fronte dovrebbe essere la disponibilità, su una banca dati unica sul web, delle dichiarazioni ISEE dei nuclei familiari, a cui la pubblica amministrazione acceda in automatico tutte le volte che deve calcolare un contributo o l’importo per un servizio erogato, evitando code per la compilazione, consegna ripetuta a diversi uffici – con risparmio per cittadini e pubblica amministrazione – e sulla base della quale la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrare stabiliscano i controlli da effettuare.

foto: LaPresse