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  • Venerdì 13 aprile 2012

Tenniste

"Abbandonate la maledetta televisione", scrive Gianni Clerici nell'introduzione, e guardate la galleria sentimentale messa insieme in un bel libro da Massimo Coppola

di Massimo Coppola

PARIS - MAY 26: Petra Cetkovska of Czech Republic hits a forehand during the Women's Singles first round match against Alona Bondarenko the Ukraine on day two of the French Open at Roland Garros on May 26, 2008 in Paris, France. (Photo by Matthew Stockman/Getty Images)
PARIS - MAY 26: Petra Cetkovska of Czech Republic hits a forehand during the Women's Singles first round match against Alona Bondarenko the Ukraine on day two of the French Open at Roland Garros on May 26, 2008 in Paris, France. (Photo by Matthew Stockman/Getty Images)

Io non ho frequentato molto i campi da tennis. Avrò giocato una decina di partite subamatoriali e non ho mai visto dal vivo un match tra professionisti. Ma ricordo benissimo la prima volta che ho visto una partita di tennis in tv. Ricordo che mi pareva assurda la prospettiva del campo, vagamente trapezoidale, con le righe che si allargavano fino a toccare il margine del teleschermo e che mi pareva monotona quella strana cantilena di colpi e lievi sospiri che componevano la colonna sonora del match. Eppure non cambiavo canale, anzi mi aggiustavo sul divano mentre cominciavo a mettere a fuoco i particolari: le gonnelline e le polo bianche, col piccolo marchio, cucito a mano, sul petto. Le scarpe irregolarmente smangiate dalla terra rossa. La mano che provava e riprovava la sua presa avvolgente sulla racchetta. Pochi minuti e già si affacciava la vaga consapevolezza che sport e bellezza (se non ancora fascinazione e romanticismo) potessero avere a che fare l’uno con l’altra – una possibilità che a un ragazzino che giocava solo e soltanto a pallone e che aveva appena scoperto l’esistenza dell’altro sesso poteva generare una incontrollabile vertigine. E infatti vertigine fu.

Al Roland Garros quel giorno si sfidavano Steffi Graf e Gabriela Sabatini. Era appena terminato un game. Le immagini passavano da una tennista all’altra. I gesti si ripetevano uguali ma aritmici: se Steffi prendeva l’asciugamano Gabriela lo riponeva; se Steffi svitava il tappino di una bibita Gabriela l’aveva già bevuta. Forse già allora mi sembravano sole e sicure, fortissime e impaurite, calmissime e terrorizzate. Le tenniste sedute a bordo campo tra un gioco e l’altro, ti fanno venir voglia di andare ad abbracciarle. Il cronista attendeva l’esito del punto per un breve commento. La sua voce da prim’attore andava sopra il coro regolare del pubblico: un oooh di meraviglia, un grido isolato, l’applauso. E poi il silenzio del match, rotto solo da un urlo di incoraggiamento (Go Steffi!), o dalla voce di Gabriela che si leva in protesta (IT is out!). Altrimenti c’era solo il rintocco alterno tra il colpo di Gabriela (seguito dal respiro che le usciva dalla bocca come una slogatura) e il colpo di Steffi (seguito da un silenzio che metteva paura). Tutto contribuiva a trasmettermi l’idea che il tennis, complice la mia totale ignoranza tecnica e l’incidentale quanto decisivo dettaglio che si trattasse di tennis femminile, fosse qualcosa di diverso dallo sport. E ciò che a un primo sguardo mi era parso monotono, a guardar meglio si rivelava ricco di dettagli e sfumature. Guardavo le gambe di Steffi Graf, solide e affusolate, e vedevo la forza di gravità resistere alla torsione dei muscoli. L’attrito dei piedi sulla superficie di terra rossa diventava una sensazione fisica reale, che arrivava dritta a me, seduto sul divano.

E i capelli. Quelli di Steffi erano liberi ma non abbastanza lunghi da crearle problemi (tra le centomila cose di cui non rilevavo ancora l’importanza c’erano sicuramente le infinite possibilità che hanno le ragazze per tenere i capelli sotto controllo; i cerchietti, laccetti, fascette ed elastici che ne regolano i movimenti). Al limite, a Steffi Graf i capelli si appiccicavano alla fronte, a volte le cadevano sugli occhi, e allora lei li spostava con un braccio prima del servizio. Anche i capelli di Gabriela erano liberi quel giorno (che poi era il giorno della semifinale; vinse Steffi Graf, ma non me lo ricordavo, sono andato a controllare): nel ralenti di uno smash diventavano un’onda morbida che la circondava di una specie di aureola futurista. Intorno a me, a causa di quei ralenti, scomparivano pavimento e mobilio e lo schermo fluttuava gigantesco davanti ai miei occhi fissi, non lasciando spazio ad altro se non a una peculiare forma di romanticismo sportivo.
E poi c’era il respiro profondo di Gabriela, preso prima del servizio, per spezzare il fiato, combattere la solitudine, scacciare il tremore immaginario del braccio. Il petto saliva e scendeva lento, esausto ma libero, prima che la pallina gialla lasciasse la sua mano e si infrangesse contro il cielo blu. A volte una sua occhiataccia veloce andava lupesca a uno spettatore turbolento, a un refolo di vento troppo forte, a una nuvola che passava davanti al sole turbando l’incomprensibile equilibrio che ha il mondo un attimo prima del servizio.
Dall’altra parte della rete c’era il corpo piegato di Steffi Graf, la racchetta rigirata tra le mani curate, il sedere perfetto poco sopra il brivido dell’orlo della gonnellina. Le gambe viste da dietro, l’incavo dietro il ginocchio. A metà della mia prima partita di tennis ero già uno spettatore innamorato, di un amore astratto ma completo.

Ho visto molte altre partite di tennis e moltissimi spezzoni; di pochissime ricordo risultato e importanza, di molte ricordo immagini, volti e dettagli vagamente sentimentali e totalmente superflui ai fini del gioco, in una specie di selezione al contrario, di ribaltamento dell’ordine delle priorità. E provavo a trattenere le preziose istantanee, non soddisfatto degli avari replay che mai si concentravano su ciò che più era interessante: una posizione innaturale della mano libera mentre l’altra sferrava il colpo, l’improvvisa malinconia nello sguardo di chi aveva appena vinto la partita, una porzione di petto messa castamente a nudo dal movimento del servizio che aveva trascinato con sè una polo sbottonata. Niente, sfuggivano, volavano via nel frenetico rincorrersi dei frames della ripresa televisiva, nel superfluo conteggio game, set, match, persi per sempre insieme a chissà quanti altri in più di cento anni di partite di tennis giocate dall’avvento della riproducibilità dell’immagine e dello sguardo.
Questo libro è una galleria sentimentale di immagini scomparse, finalmente fermate sulla pagina, raccolte senza nessun altro criterio se non quello della meraviglia.
Massimo Coppola

Questa è l’introduzione di Tenniste, Una galleria sentimentale, un libro di Massimo Coppola – i testi delle didascalie sono suoi – con la prefazione di Gianni Clerici, pubblicato da ISBN