Altro che bosone di Higgs

Altre cinque grandi sfide per la scienza: dalla scoperta di esseri viventi su nuovi pianeti a una costante affidabile per il chilogrammo

Lo scorso 13 dicembre le novità comunicate dal CERN di Ginevra sulle ricerche legata al bosone di Higgs hanno portato grande interesse e concitazione, non solo nella comunità scientifica. Dimostrare l’esistenza della particella, che si ipotizza conferisca la massa alle altre particelle già note interagendo tra loro, è un obiettivo molto importante per confermare le teorie fino a ora elaborate su come funziona la materia, ovvero sostanzialmente tutto ciò che ci circonda e di cui siamo fatti. La ricerca del bosone di Higgs è considerata una delle più importanti e difficili sfide degli ultimi anni per la scienza, ma come spiegano sul sito della rivista scientifica Nature ci sono almeno altre cinque fondamentali ricerche altrettanto difficili da portare a termine.

1. Trovare segni di vita in altri mondi

Nel 1999, David Charbonneau si era da poco laureato presso l’università di Harvard (Cambridge, Massachusetts) quando misurò per la prima volta la piccola riduzione di luminosità in una stella causata dal passaggio davanti al suo disco luminoso di un pianeta, in un sistema solare diverso dal nostro. Il metodo usato da Charbonneau viene oggi impiegato regolarmente dagli scienziati per scoprire nuovi pianeti anche molto distanti dalla Terra. Ma è dopo averli individuati che viene la parte difficile: determinare di che cosa sono fatti e da quali gas è costituita la loro atmosfera. La presenza di ossigeno può indicare la presenza di forme di vita, anche primordiali, come le conosciamo noi, ma rilevare la presenza di simili gas è un’impresa estremamente difficile.

Anche identificare un nuovo pianeta non è semplice, spiega Charbonneau, perché la variazione di luce causata dal passaggio del pianeta è molto ridotta. Un corpo celeste delle dimensioni di Giove passando davanti a una stella grande quanto il Sole porterebbe a una riduzione temporanea di luce visibile pari all’uno per cento. Un pianeta molto più piccolo, come la Terra, bloccherebbe circa lo 0,01 per cento della luce solare. Per valutare la composizione dell’atmosfera del pianeta appena scoperto si deve invece badare a uno strato che da così distante appare sottilissimo, qualcosa di paragonabile alla sottile buccia (tunica esterna) che ricopre le cipolle. Solamente la luce che attraversa quel sottile strato fornisce informazioni utili per gli astronomi che vogliono ricostruire la composizione chimica dell’atmosfera del nuovo pianeta scoperto.

Al momento non ci sono strumentazioni sufficientemente accurate per rilevare con certezza i gas che costituiscono l’atmosfera dei nuovi pianeti scoperti. I telescopi Hubble e Spitzer hanno analizzato lo spettro luminoso di una quarantina di pianeti gassosi giganti negli ultimi sette anni, ma i risultati ottenuti sono considerati controversi da molti ricercatori, desiderosi di avere dati più accurati e affidabili. Per i pianeti con caratteristiche simili alla Terra non ci sono ancora ricerche affidabili sulla composizione della loro atmosfera. Alcuni ricercatori hanno prodotto uno studio sui gas che probabilmente formano l’atmosfera di GJ 1214b, un pianeta che si trova al di fuori del nostro sistema solare e classificato nella categoria delle super-terre (ha un raggio di 2,6 volte quello del nostro Pianeta).

La speranza di tanti ricercatori, compreso Charbonneau, è che la NASA riesca infine a mandare in orbita il James Webb Space Telescope, una strumentazione da 8 miliardi di dollari che dovrebbe essere il successore del telescopio spaziale Hubble. Il nuovo telescopio potrebbe rendere più semplice l’osservazione delle “bucce di cipolla” dei pianeti, facilitando il lavoro ai ricercatori che cercano pianeti simili alla Terrà là fuori e in grado di ospitare forme di vita.

2. Molecole e specchi

La biologia, spiegano su Nature, è in un certo senso sbilenca. Molte molecole sono “chirali”, non sono cioè sovrapponibili alla loro immagine speculare. Quando realizzano queste molecole in laboratorio, i ricercatori ottengono di solito diverse forme, definite per convenzione “destre” o “sinistre”. La natura mostra, però, una netta preferenza per la sinistra quando si tratta di cellule viventi, ma nessuno è ancora riuscito a spiegare bene perché.

Secondo diversi ricercatori, una spiegazione potrebbe essere dovuta al fatto che una delle quattro forze fondamentali – la forza debole – prevista dal modello standard (quello messo insieme dai fisici per descrivere l’esistenza e il comportamento delle particelle) influenza in maniera diversa le molecole destre e le sinistre. Le altre tre forze, gravità compresa, si comportano invece allo stesso modo nelle versioni speculari. La forza debole potrebbe essere la responsabile della differenza negli stati di energia tra la versione originaria e quella speculare di una stessa molecola chirale.

Alcuni team di ricerca stanno provando a misurare questa differenza per capire come mai la biologia sia sbilenca. Per farlo servono, però, strumentazioni estremamente sensibili e isolate da possibili fonti di vibrazioni, che potrebbero ridurre l’accuratezza delle rilevazioni. I ricercatori devono anche creare molecole da testare sufficientemente grandi per rendere più semplice la misurazione delle differenze. Saranno necessari ancora mesi, forse anni, per ottenere qualche risultato e non è detto che gli studi consentiranno di capire perché la natura si butti a sinistra.

3. Altre dimensioni
La realtà che ci circonda, per come la conosciamo, ha tre dimensioni: sinistra – destra, davanti – dietro, sopra – sotto. Secondo diversi fisici, lo spazio ha però molte più dimensioni che per le loro caratteristiche rimangono nascoste alla nostra esperienza quotidiana. Si ipotizza che queste altre dimensioni siano in grado, per esempio, di influenzare su scale molto ridotte la forza di gravità, creando una forza tra due corpi che differisce notevolmente dalle leggi sulla gravità elaborate inizialmente da Newton e considerate uno dei capisaldi della fisica. Identificando i cambiamenti nella gravità con una nuova serie di esperimenti, i ricercatori potrebbero avvicinarsi e “vedere” dimensioni fino a ora sconosciute.

Eric Adelberger del Centro di sperimentazione di fisica nucleare e astrofisica della University of Washington (Seattle) ci sta provando da tempo. Insieme con il suo team, ha scelto di usare come strumento per gli esperimenti una bilancia di torsione, uno strumento usato già dal fisico britannico Hanry Cavendish per effettuare le prime misurazioni sulla forza di gravità negli ultimi anni del Settecento. Nella versione dei giorni nostri, un cilindro metallico è appeso a un filo, che consente al cilindro di girare su se stesso liberamente. Attaccato al fondo del cilindro c’è un disco con una corona di fori chiamato rivelatore. Un secondo disco con un’altra corona di fori, chiamato attrattore, si trova al di sotto del rilevatore, staccato da questo di pochissimi micrometri (milionesimi di metri).

Quando l’attrattore viene fatto girare, ciò che si trova tra i suoi buchi esercita una piccola forza gravitazionale nei confronti di ciò che si trova tra i buchi del disco rivelatore. Questa forza fa torcere il filo che sostiene il cilindro, facendolo ruotare di alcuni miliardesimi di grado. Per essere sicuri che il rivelatore stia rispondendo alla forza esercitata dall’attrattore e a nient’altro, il sistema deve essere fatto interamente con materiali che non subiscano l’attrazione magnetica e tutte le superfici devono essere placcate con oro, così da tenere alla larga eventuali cariche elettriche. I componenti del sistema devono essere, inoltre, perfetti e protetti da qualsiasi vibrazione esterna. Ottenere dati affidabili è quindi difficilissimo e, spiega Adelberger, molte delle informazioni raccolte sono inutilizzabili perché poco affidabili.

Grazie al lavoro del suo team, il ricercatore ha comunque compiuto importanti passi avanti. Se esistono altre dimensioni oltre alle tre che già conosciamo, spiegano su Nature, queste si trovano in una porzione di spazio che non è superiore ai 44 micrometri. Se ne esistesse una intorno ai 30 micrometri, la scoperta potrebbe essere realizzata già quest’anno, ma se si dovesse trattare di qualcosa in uno spazio ancora più ridotto, allora c’è la possibilità che nuove dimensioni non vengano scoperte, almeno in questo modo.

4. Onde gravitazionali

Nella relatività generale, Einstein ipotizzò a livello teorico l’esistenza delle onde gravitazionali. Possiamo considerarle come increspature nel tessuto dello spazio-tempo causate dalla presenza di masse in movimento, spiega l’astrofisico Scott Ransom del National Radio Astronomy Observatory di Charlottesville (Virginia): «Quando scuoti qualcosa con una massa, generi delle onde gravitazionali».

Il problema è che anche una onda molto grande porta, in teoria, effetti molto difficili da rilevare. Se un’onda gravitazionale di notevole portata attraversasse la Terra, per esempio, farebbe restringere e allargare il diametro del nostro pianeta di appena 10 nanometri (dieci miliardesimesimi di metro) se non di meno. Da tempo diversi centri di ricerca provano a identificare una di queste onde per dimostrarne l’esistenza, ma isolarle dal rumore di fondo non è per nulla semplice. Sono sufficienti i tuoni di un temporale, il passaggio di un treno o le onde del mare mosso a migliaia di chilometri dai centri di rilevazione per complicare la registrazione dei dati.

Ransom spera di risolvere il problema lasciando perdere le rilevazioni terrestri e dedicandosi alle pulsar, le stelle di neutroni caratterizzate da una enorme densità (alcune hanno massa pari a quella del Sole, ma con un raggio di appena dieci chilometri). Alcune di queste stelle estremamente dense ruotano migliaia di volte al secondo su loro stesse. Secondo le teorie maggiormente accertate, a ogni giro emettono un fascio di radiazioni che può essere rilevato dagli astronomi. L’obiettivo è quindi quello di osservare una ventina di pulsar in diverse posizioni del cielo, registrando le variazioni delle loro emissioni causate dalle onde gravitazionali che contraggono lo spazio-tempo che si trova tra il punto dove si trovano e la Terra.

Le strumentazioni per effettuare simili rilevazioni esistono già, ma servirà molto tempo prima di arrivare a un risultato affidabile. Si stima che occorrano almeno dieci anni per avere dati sufficientemente certi. Per ora sono state misurate sei sole pulsar per cinque anni, quindi la strada è ancora lunga.

5. Definire meglio il chilogrammo

La massa di un chilogrammo è stata concepita per essere una costante, dunque non dovrebbe cambiare mai. Eppure negli ultimi anni il chilogrammo di riferimento, il cilindro di platino e iridio conservato dalle parti di Parigi da più di 120 anni, è cambiato sensibilmente. La sua massa sta cambiando e le copie del chilogrammo di riferimento che avevano lo stesso esatto peso dell’originale ora ne hanno uno diverso. Il problema, spiegano gli esperti, è che il chilogrammo è l’unica unità di misura fondamentale a essere ancora definita con un oggetto fisico. È quindi necessario trovare una costante fisica cui collegarlo, così come è avvenuto per il metro che ora è definito dalla distanza che la luce compie nel vuoto in 1/299.792.458 secondi.

Per farlo sarebbe però necessario risolvere il problema della costante di Planck (h) «che rispecchia la dimensione dei quanti di energia nella meccanica dei quanti e che, come è noto, è legata all’energia attraverso la frequenza della luce: E = hv. Combinando quell’equazione con l’ancora più famosa E = mc² si arriva a una definizione della massa. Trovare un valore preciso per la costante di Planck non è semplice e i ricercatori sono divisi su due metodi diversi per calcolarlo, cosa che potrebbe ritardare ulteriormente le ricerche.

Uno di questi metodi prevede l’uso di una “bilancia di Watt”. Semplificando, funziona così: su un piatto della bilancia c’è una massa da un chilogrammo, accuratamente riprodotta sulla base del modello di Parigi, e dall’altra parte c’è una bobina in cui passa energia elettrica immersa in un campo magnetico. Il campo viene modificato fino a quando il peso della massa è in equilibrio con la forza elettromagnetica formata sulla bobina, che può essere poi ricondotta attraverso una serie di equazioni alla costante di Planck. In teoria l’esperimento non è complicato, ma per ottenere risultati affidabili è necessario che siano comprese nel calcolo alcune variabili, come ad esempio i campi di forza gravitazionale, e che siano evitate vibrazioni e altre variabili durante le rilevazioni. Con questo sistema nel 2007 è stata effettuata una delle misurazioni più accurate della costante di Planck, ma i risultati ottenuti in un altro centro di ricerca ne hanno messo in discussione l’affidabilità.

L’altro sistema consiste nel contare il numero di atomi presenti in un campione di un materiale isotopicamente puro, composto da un solo elemento. «Questo determinerebbe il valore del numero di Avogadro – il numero di atomi che stanno esattamente in 12 grammi di carbonio 12, per esempio – che può poi essere legato matematicamente alla costante di Planck attraverso una serie di equazioni». Nel 2008 in Germania un gruppo di ricercatori ha iniziato a fare esperimenti con un paio di sfere da un chilogrammo modellate da del silicio-28 puro al 99,995 per cento. I primi studi hanno interessato la valutazione accurata del volume delle sfere e della struttura dei cristalli che le costituiscono, così da ottenere dati ancora più precisi. La ricerca ha consentito di affinare di molto il calcolo del numero di Avogadro e i dati ottenuti, applicati con equazioni, hanno permesso di calcolare una costante di Planck del tutto simile a quella ottenuta nel 2007 con la bilancia di Watt.

L’attuale valore della costante di Planck, il più riconosciuto, ha una incertezza di 44 parti per miliardo. Secondo alcuni si tratta di una approssimazione sufficientemente accurata per ridefinire il chilogrammo con una costante, ma altri preferiscono mantenere maggiori cautele e aspettare che il margine di errore sia ancora più basso. L’obiettivo è arrivare a 20 parti per miliardo.