L’incontro di Durban è inutile?

Le forti divisioni tra i partecipanti alla nuova conferenza dell'ONU sul cambiamento climatico potrebbero far naufragare tutto, un'altra volta

Oggi, lunedì 28 novembre, a Durban (Sudafrica) inizia la diciassettesima sessione delle Conferenze delle Parti (COP17) organizzata dalle Nazioni Unite per confrontarsi sui progressi raggiunti, e sulle cose da fare, per contrastare gli effetti che potrebbero essere causati dal cambiamento climatico. Ufficialmente l’incontro è stato organizzato per trovare una soluzione comune «che garantisca un futuro alle prossime generazioni», ha spiegato il ministro sudafricano Maite Nkoana-Mashabane che presiede il meeting, ma che possa essere trovato un nuovo accordo con punti vincolanti per tutti gli stati appare ancora una volta molto improbabile.

La crisi economica sta spingendo molte nazioni a chiedere rinvii e rinegoziazioni, così da rimandare le nuove spese e le soluzioni per ridurre le emissioni di gas serra, che potrebbero rivelarsi costose e avere un impatto sulla crescita già messa a dura prova dai problemi economici. I paesi in via di sviluppo contestano gli stati come il Giappone, il Canada e la Russia che si sono rifiutati di ridurre ulteriormente le loro emissioni come previsto dal Protocollo di Kyoto. L’accordo del 1997 scadrà alla fine del prossimo anno e non è ancora chiaro quale seguito potrà avere.

Durante la conferenza di Durban, i piccoli stati insulari torneranno a chiedere un maggiore rispetto delle regole. I cambiamenti climatici li coinvolgono direttamente perché l’innalzamento del livello degli oceani rischia di far sparire i loro territori. Sul sito della BBC, Richard Black spiega che le piccole isole protesteranno non solo contro le economie già sviluppate, ma anche contro quelle emergenti che fino a ora hanno cercato di ritardare le misure per la riduzione dei gas serra, così da non influenzare la loro crescita.

Dall’ultimo incontro internazionale sul cambiamento del clima a quello che si è aperto oggi è diventata più netta la divisione tra due gruppi. Da una parte ci sono l’Unione Europea e gli stati in via di sviluppo che chiedono un nuovo trattato a livello globale che integri o sostituisca quanto prima quello di Kyoto, mentre dell’altra parte ci sono paesi come gli Stati Uniti, la Russia e il Giappone che chiedono tempi più lunghi da spalmare nel prossimo decennio. La loro idea è di iniziare a sviluppare da subito un nuovo accordo protraendo i lavori fino al 2015, mettendo poi in pratica gli accordi raggiunti a partire dal 2020.

La pensano più o meno allo stesso modo altre due grandi economie in pieno sviluppo come l’India e il Brasile. Tra i due gruppi si colloca la Cina, che fino a ora ha mantenuto un atteggiamento ambiguo, ufficialmente aperto a entrambe le soluzioni da valutare in ambito internazionale. Il paese è il primo produttore di emissioni nocive ed è quindi indispensabile ottenere la sua collaborazione per creare un accordo che funzioni.

A Durban i delegati dei vari paesi del mondo discuteranno anche la creazione del “Green Climate Fund“, un fondo che raccolga risorse per favorire e incentivare la riduzione degli inquinanti nell’atmosfera. L’idea del fondo esiste da tempo e fu formalizzata per la prima volta l’anno scorso nel corso della sedicesima COP. L’obiettivo è mettere insieme almeno 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020, denaro da destinare principalmente ai paesi in via di sviluppo per aiutarli a creare sistemi e infrastrutture a basso impatto ambientale. Il problema è che non c’è ancora un accordo chiaro su chi debba contribuire al fondo, con quali modalità e con quanti soldi. I paesi in via di sviluppo dicono che il tutto dovrebbe essere a carico dei paesi già fortemente industrializzati, ma i governi delle economie avanzate ritengono che le somme di denaro debbano essere messe a disposizione dal settore privato.

Le contrattazioni sul fondo sono ancora in alto mare, ma secondo molti osservatori Durban è una buona occasione per iniziare a discuterne e per sfruttare l’occasione del meeting. Probabilmente prima della fine del prossimo anno e della prossima conferenza non sarà deciso nulla di preciso in tema. La speranza è che venga trovato almeno un accordo di massima sulle regole per gestire il fondo.

La conferenza di Durban non è comunque iniziata sotto i migliori auspici. La settimana scorsa sono state rese pubbliche circa cinquemila email della Climatic Research Unit (CRU) della University of East Anglia. Nei documenti, la cui provenienza non può essere del tutto verificata, si parla della manipolazione di alcuni dati per aumentare l’impatto delle ricerche scientifiche sul cambiamento climatico al fine di ottenere una risposta più pronta e incisiva da parte dei governi. Gli estratti fino a ora circolati sono stati presi fuori contesto per gettare discredito sugli studi legati al global warming, spiegano i ricercatori coinvolti.

Le modalità e la tempistica del rilascio dei documenti ricordano molto da vicino la diffusione delle email del 2009, che portò al cosiddetto Climategate. I detrattori delle teorie sul cambiamento climatico utilizzarono quel materiale per screditare le ricerche, pochi giorni prima dell’avvio della conferenza sul clima di Copenhagen. Nel Regno Unito vennero avviate tre inchieste e nel 2010 si giunse alla conclusione che i ricercatori della CRU non avevano manipolato i dati.