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  • Mercoledì 5 ottobre 2011

Una domenica a Wall Street

L'inviata del Post nell'accampamento di Occupy Wall Street a Zuccotti Park

di Maddalena Vaglio Tanet

Il pomeriggio del 2 ottobre, domenica, Wall Street è quasi deserta. Ci sono solo pochi turisti e qualche poliziotto a vigilare sulle transenne che incanalano i passanti ai lati della strada e lasciano sgombra la zona di fronte al palazzo della borsa. “Non ci si può più fermare”, conferma un agente del NYPD, ma quando chiedo se il transennamento abbia a che fare con i manifestanti di Occupy Wall Street l’unica risposta che ricevo è un’alzata di spalle.

Su Broadway invece, in direzione di Liberty Plaza, il suono di tamburi e il clamore crescono a ogni isolato: “I am the future! You are the future!”. Dal flusso di persone sui marciapiedi si stacca qualche curioso, alcuni si avvicinano con aria diffidente, altri applaudono, molti tirano dritto. La piccola piazza è gremita, ci saranno almeno 400 persone. Una schiera di manifestanti mostra i cartelli e si mette in posa per le decine di persone che scattano fotografie: “Love not greed (amore non avidità)” e “L’American Dream è uno slogan creato per far lavorare le persone allo sfinimento”, “Sono un essere umano, non una merce”, “Arrestato ieri, di nuovo qui oggi. Siamo il 99%”.

Appena dietro di loro si è formato un cerchio di musicisti, qualcuno è travestito – un vichingo con le trecce bionde, una casalinga disperata, con bigodini, grembiule e mestoli che spuntano dalle tasche –, ci sono percussioni, sonagli, chitarre, trombe, un sassofono. La gente intorno balla, un uomo in giacca e cravatta sembra appena uscito dall’ufficio, arriva trafelato e si annoda la cravatta sulla fronte come una bandana. Con grande gentilezza ci si dà il cambio per salire sui tavolini di pietra e scattare altre fotografie.

All’angolo nord-est della piazza c’è un banchetto ingombro di volantini che elencano il programma giornaliero: laboratori (di discussione non meglio specificata, organizzazione dello spazio, sui rapporti con i media), rassegna stampa, preparazione dei cartelli, pulizie. E in effetti un ragazzo armato di scopa e paletta, la scritta “Dancin’ Cleaner” stampata sulla maglietta, schiva a ritmo di musica i corpi accalcati e raccatta da terra i rifiuti. Ci sono anche le copie fresche di stampa dell’Occupy Wall Street Journal, che titola “Revolution begins at home”, la rivoluzione comincia a casa. In prima pagina un breve articolo sulle sommosse in Grecia: una sintesi molto semplificata degli ultimi avvenimenti e poi: “Crisi, disoccupazione, licenziamenti, soprusi da parte della polizia. Non è esattamente ciò che accade qui? […] Non dobbiamo accettare il mondo che ci impongono le banche, i politici e la polizia. Il futuro siamo noi”.

Banche, politica, polizia sono i nemici, i perpetuatori di una società iniqua e solo apparentemente democratica a cui, se si ha un minimo di senso di giustizia, ci si deve ribellare. Un altro articolo, scritto da David Kempa, giovane giornalista free-lance, precisa i termini della questione: “Il movimento combatte una distribuzione della ricchezza scandalosamente ingiusta, nel nostro paese 46 milioni di persone vivono in povertà. Combatte il fatto che Wall Street e il Campidoglio siano la stessa cosa. Combatte, con le unghie e con i denti, la disintegrazione della classe media americana. In parole povere, combatte la sete di denaro”. Il pezzo di Chris Hedges è il più minaccioso, l’unico dai toni davvero apocalittici: “Speculatori, politici ossequiosi, giudici e giornalisti vivono nella loro esclusiva Versailles mentre 6 milioni di Americani vengono buttati fuori di casa, un milione di persone all’anno va in bancarotta perché non può pagare le spese mediche e 45.000 muoiono senza cure […] Se non fai qualcosa l’1% di privilegiati molto presto ti ucciderà. E ucciderà l’ecosistema, condannando i tuoi figli e i figli dei tuoi figli”.

Dietro al banchetto dei giornali, un ragazzo afroamericano risponde alle domande, indirizza i nuovi arrivati all’infermeria, al dormitorio, alla Art zone dove si dipingono volti e cartelloni. Parliamo brevemente del giornale, di chi sceglie i pezzi, di come si stampa. È stata eletta una redazione, mi racconta, e viene stampato grazie alle donazioni in una tipografia del Queens. La confusione e il rumore non permettono lunghe chiacchierate, mi regala un origami fucsia e fa cenno a manipolo di signore piuttosto in là con gli anni, vestite di rosa shocking. Sono le attiviste del Codepink (codice rosa, www.codepink.org) e sono loro le autrici degli origami appesi un po’ dappertutto ai rami degli alberi.

Mi avvicino, hanno delle lavagnette su cui si può scrivere quel che si vuole, qualche bambino disegna uomini stilizzati e grandi cuori, tutto rigorosamente sui toni del rosa. Anche il famoso adesivo di Obama è stato ristampato in lilla e violetto, la scritta però è diventata “Hopeless” e suona come una sentenza. “Obama non ha avuto coraggio”, s’infervora un’attivista, “si deve dare una mossa!”. Le donne del Codepink sono ecologiste e pacifiste, si sono riunite per la prima volta per manifestare contro l’invasione dell’Iraq da parte dell’amministrazione Bush e adesso appoggiano Occupy Wall Street incondizionatamente. Alcuni membri del gruppo sono stati arrestati il giorno precedente, quando il corteo che stava attraversando il ponte di Brooklyn ha invaso la corsia riservata alle automobili. “Arrestare 700 persone è una follia. Ecco, Melanie qui per esempio è già stata rilasciata”. Melanie, una giovane donna in jeans e camicia a quadrettoni, va di fretta, deve andare a sostituire qualcuno al reparto informazioni: “Io ero in fondo, siamo stati tra gli ultimi a imboccare il ponte. Non abbiamo sentito nessun poliziotto, vedevamo gli altoparlanti della polizia ma non si distingueva una parola, abbiamo semplicemente seguito gli altri e loro ci hanno lasciati fare, sembrava che non sapessero che pesci pigliare. Solo dopo è scattato l’arresto. Ho aspettato due ore sul ponte con le manette di plastica, poi mi hanno trasportata in una centrale di Brooklyn. Sono uscita stanotte e sono di nuovo qui”, mi conferma prima di indicarmi di sfuggita la biblioteca, orgoglio di tutti i manifestanti, e scomparire.

La biblioteca consiste in una fila di contenitori di plastica, assiepati su un lato della piazza, a occhio e croce 250 libri regalati o prestati. Un rotolo di tela cerata azzura li protegge dalla pioggia. La bibliotecaria è una ragazza sulla trentina, si chiama Jaime e lavora in una galleria d’arte; di solito raggiunge Liberty Plaza nel pomeriggio e ci resta fino a sera, quando torna a casa a Long Island. La biblioteca era completamente disorganizzata, un calderone di romanzi, opuscoli, saggi (soprattutto storia americana, economia e storia del lavoro), fumetti e raccolte di versi. Jamie l’ha sistemata, ha compilato un catalogo e tiene un registro dei prestiti e delle restituzioni. Sembra molto schiva, ma accetta di parlare un po’ di sé. Dopo la laurea è rimasta senza lavoro per un anno, viveva in Tennessee e non aveva l’assicurazione sanitaria, poi ha trovato un posto a New York e se lo tiene stretto. Si è unita al movimento la settimana precedente, è a suo agio in un contesto non politicizzato, dove non è questione di schieramenti o di classe, soltanto di migliorare il Paese: “Il sistema a due partiti è una piaga, non funziona, qui ci sono democratici e repubblicani e gente che non ha votato, siamo tutti delusi”. Quando le dico che sono italiana, mi ammonisce ridendo: “State lontani dal bipolarismo!”

Intanto una piccola troupe fende la folla in direzione del centro della piazza, verso quello che sembra essere il cuore organizzativo della protesta, un’area delimitata da nastri di plastica e gremita di sedie, zaini, generatori di elettricità, computer portatili. Li seguo, sono italiani e per conto del TG1 intervistano una delle ragazze che ha il cartellino “info” appuntato alla maglietta. Quali sono le tre cose fondamentali che Occupy Wall Street desidera cambiare immediatamente? La risposta è netta: un sistema economico che permette ai più ricchi di non essere tassati in maniera equa e erode la classe media con la benedizione del Tea Party, il sistema sanitario e il sistema educativo. Tutte le altre risposte sono una declinazione di questi temi: l’istruzione poco accessibile che costringe gli studenti a impegnarsi nel pagamento pluridecennale dei prestiti, lo strapotere delle assicurazioni sanitarie che trattano le persone come se fossero automobili.

Un altro occupante, ex-studente di economia, ora impiegato come cuoco, mi dice qualcosa di più sull’organizzazione del campo: ogni giorno ci sono laboratori spontanei su qualsiasi argomento sia considerato interessante da un certo numero di persone, un moderatore facilita la discussione, ma non sempre si raggiunge un accordo. Nell’assemblea generale delle 19 si fa il punto e si prendono decisioni operative, come quella relativa alla marcia verso Brooklyn; l’“Occupy Wall Street Journal” la descrive “orizzontale, autonoma, senza leader, con radici nel pensiero anarchico”. Mentre parliamo un’aspirante donatrice viene accompagnata al tavolo-fondi (lì ti spiegano che è anche possibile inviare cibo e vestiti presso UPS Store 118A, Fulton St. 205, NYC, NY 10038), un uomo offre il suo aiuto di tecnico informatico e una giornalista parla con una ragazza preoccupata per un amico trattenuto in carcere.

Il dormitorio, materassi e sacchi a pelo incastrati lungo il lato di sud-ovest, è quasi vuoto. Il disegno sbarrato di un enorme bed bug, parassita incubo dei newyorkesi e probabile infestatore di questo accampamento di fortuna, è fissato al tronco di un albero come un totem. Comincia a piovere. Un ragazzo, disteso “a letto” con il computer sulle gambe, si ripara con l’ombrello. Gli altri coprono la distesa di cartelloni colorati con dei teli di plastica.

Prima di lasciare Zuccotti Park mi fermo a parlare con i poliziotti che controllano la zona e stanno in piedi sotto la pioggia davanti al camion di Wikileaks. Non sanno quante persone siano state rilasciate dopo gli arresti di ieri e quante siano ancora trattenute. Uno di loro difende l’operato della polizia: “Sapevano che non si può bloccare il traffico, si sa, non c’è bisogno di sentire gli altoparlanti. Se si crea un problema di ordine pubblico, se si intralciano le auto, si viene arrestati. Dobbiamo fare il nostro lavoro”.

Tre o quattro chioschi ambulanti sono parcheggiati poco lontano e danno da mangiare agli occupanti, qualcuno fa lo sconto sulle bevande. La pioggia intanto aumenta, chi si era fermato a curiosare corre via, i materassi s’inzuppano, le attiviste di Codepink aprono gli ombrelli tutti rosa, Jaime sigilla i contenitori con i libri. Io e Judith, una donna vestita con eleganza, macchina fotografica professionale al collo, facciamo insieme un pezzo di strada prima di separarci davanti alla stazione di Wall Street. Suo figlio è un occupante della prima ora. Prima di salutarmi, al riparo di un’impalcatura, mi confida: “Nei prossimi giorni ci sarà un sit-in, credo che si travestiranno da zombie, io non so se ce la farò con il lavoro. La cosa che più mi rincuora è che il movimento stia crescendo e il “New York Times” ne parli. Abbiamo speso un patrimonio per l’università di mio figlio, si è laureato quattro anni fa, è ancora disoccupato”.

Ripartire da Wall Street, l’analisi del Post sulle proteste