“L’uomo che ha fottuto l’Italia”

L'ennesima stroncatura dell'Economist al PresdelCons è anche la più dura e amara

L’Economist di questa settimana – che esce domani – dedica la sua copertina a Silvio Berlusconi, con l’eloquente titolo che accompagna anche questo articolo. È l’ennesima copertina che il settimanale britannico dedica al PresdelCons in questi anni, più volte definito inadatto a governare l’Italia, ed è l’ennesima analisi particolarmente critica riservata dalla stampa straniera a Silvio Berlusconi. Non dice niente che non sappiamo già, qui, ma lo dice che con grande lucidità e senza le miopie che a volte caratterizzano i racconti dell’Italia fatti dalla stampa straniera.

L’editoriale che apre il numero spiega che Berlusconi ha molte ragioni per essere soddisfatto della sua vita: il suo impero mediatico e finanziario, il predominio politico che ne ha fatto l’uomo che ha occupato per più tempo la carica di presidente del Consiglio dopo Mussolini. I risultati del suo governo però sono disastrosi. Ci sono gli scandali sessuali, che però hanno avuto “un impatto limitato” sulla sua popolarità e sulla sua azione di governo. Ci sono i numerosi processi per corruzione e falso in bilancio, che erano già costati a Berlusconi il noto “unfit to lead Italy” espresso dall’Economist nel 2001. Quello che di peggiore Berlusconi si lascerà dietro, però, non è né il processo per prostituzione minorile né quelli per corruzione.

Peggio di tutte queste cose, c’è un terzo fallimento: il suo completo menefreghismo per le condizioni economiche del suo paese. Forse a causa delle distrazioni impostegli dai suoi problemi giudiziari, in nove anni da primo ministro Berlusconi non ha trovato rimedio alla grave debolezza economica all’Italia, probabilmente nemmeno l’ha riconosciuta. Il risultato è che lascerà dietro di sé un paese in terribili condizioni.

Qui cominciano dei dati, leggerli tutti insieme è interessante e inquietante. Grazie alle politiche particolarmente rigide del ministro Tremonti, dice l’Economist, l’Italia durante la crisi ha tenuto botta. Il mercato immobiliare non è scoppiato, le banche non sono fallite. Il tasso di disoccupazione è all’8 per cento, contro il 20 per cento della Spagna. Il rapporto tra deficit e PIL è al 4 per cento, contro il 6 per cento della Francia. Ma questi numeri sono “ingannevoli”, perché il problema dell’Italia è un problema cronico e non passeggero come quello di molti altri paesi.

Quando le economie europee arretrano, quella italiana arretra di più. Quando crescono, quella italiana cresce meno. Solo lo Zimbabwe e Haiti sono cresciute meno dell’Italia nei dieci anni che vanno dal 2000 al 2010. La mancanza di crescita implica che, nonostante Tremonti, il debito pubblico sia ancora al 120 per cento del PIL, il terzo più alto tra i paesi del mondo ricco. Tutto questo è reso ancora più preoccupante dall’aumento dell’età media degli italiani.

Nemmeno il dato sulla disoccupazione, visto di traverso, è così rassicurante. Un quarto dei giovani italiani – e più ancora nel Meridione d’Italia – non ha lavoro. L’occupazione femminile è ferma al 46 per cento, la più bassa dell’Europa occidentale. La produzione industriale negli ultimi dieci anni è scesa del 5 per cento, mentre è aumentata di un quinto in Gran Bretagna e di un decimo negli Stati Uniti. Tutto ciò si ripercuote sulla qualità della vita degli italiani: le infrastrutture si deteriorano così come i servizi pubblici, le condizioni ambientali peggiorano. Gli stipendi sono stagnanti, moltissimi giovani lasciano l’Italia e il potere rimane nelle mani di “un’elite anziana e fuori dalla realtà”.

Nonostante tutto questo, scrive l’Economist, pensare che cambiare l’Italia sia impossibile non è solo disfattista, ma anche sbagliato. Il settimanale britannico elogia i governi italiani degli anni Novanta, che imposero riforme economiche per fare entrare l’Italia nell’euro. E persino Berlusconi, scrive l’Economist, nel 2003 promosse la legge Biagi, che diede una grossa spinta all’occupazione. “Avrebbe potuto fare molto di più se avesse usato il suo potere e la sua popolarità per fare altro, invece che proteggere i suoi interessi”. Chi verrà dopo di lui si troverà una bella gatta da pelare: Grecia, Portogallo e Spagna stanno affrontando misure dolorose ma che nel lungo termine gli permetteranno di ridurre e ristrutturare il loro debito. L’Italia, invece, rischia di rimanere così com’è.