• Libri
  • Mercoledì 25 maggio 2011

Quando si può fare la guerra

Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelski sulle democrazie e le guerre giuste

One of the six F16 fighter planes from Denmark air force based at the Italian military airport of Sigonella, southern Italy takes off in front of the Vulcano Etna at the base on March 25, 2011. AFP PHOTO / Filippo MONTEFORTE (Photo credit should read FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)
One of the six F16 fighter planes from Denmark air force based at the Italian military airport of Sigonella, southern Italy takes off in front of the Vulcano Etna at the base on March 25, 2011. AFP PHOTO / Filippo MONTEFORTE (Photo credit should read FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

Nel loro libro conversazione pubblicato nei giorni scorsi da Laterza – “La felicità della democrazia” – Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky prendono a un certo punto le mosse dalle riflessioni sull'”emergenza” e sul “partito della trattativa” ai tempi del sequestro Moro, per discutere dei termini in cui una democrazia si debba rapportare con uno scenario straordinario come quello della guerra.

EM: Ma la lezione di quegli anni fu anche un’altra. Ti ricordi la tentazione «emergenzialista», da Stato speciale, una sorta d’eccezione alla normalità delle regole e dei diritti in nome della sfida a cui eravamo sottoposti. Bene, per me la lezione dice questo: la democrazia quando è sotto attacco si deve difendere, sia per non cedere il passo alla barbarie, sia per proteggere i suoi cittadini (che negli Stati democratici hanno concesso al potere pubblico il monopolio della forza in cambio di garanzie), sia per dimostrare l’efficienza dello Stato, sia infine per testimoniare la sua stessa efficacia: perché una democrazia non è un sistema di regole disincarnato, ma, come abbiamo detto più volte, è qualcosa di vivo, che è interpellato dalla storia, cioè dall’insieme delle vicende umane dei suoi cittadini.

GZ: Dunque, tu dici che la democrazia deve potersi difendere. Come si potrebbe non essere d’accordo? Pensare il contrario, equivarrebbe a non credere nella democrazia. Anzi: non solo la democrazia, ma lo Stato come tale e quindi anche lo Stato democratico. Il monopolio della forza legittima che i cittadini gli concedono per evitare il disordine, la guerra di tutti contro tutti, ha come corrispettivo che lo Stato stesso usi la forza che ha ricevuto per garantire la sicurezza della vita di coloro che gli si affidano per cercare protezione. Sono nozioni elementari. Ma lo Stato democratico si trova in questa situazione: che per essere democratico, incontra limiti all’uso della forza, e questi limiti lo possono rendere inetto. Insomma: per essere ancora se stesso, deve correre il rischio di non essere più. Per difendere la democrazia dai suoi nemici, si può sospendere la democrazia? È la questione dello «stato d’eccezione», della sospensione dei diritti, della concentrazione dei poteri, dell’azione senza controlli, del segreto di Stato, della separazione degli «amici» dai «nemici».

EM: Ecco il punto: proprio per sconfiggere la barbarie, distinguendosene, la democrazia secondo me deve difendersi restando se stessa e dunque mai abdicando a quei principî di diritto e di salvaguardia dei diritti, di rispetto delle regole e delle istituzioni che la caratterizzano, le danno forma e sostanza, e la distinguono da altri sistemi. Bene, quest’esigenza, quest’obbligo di cui abbiamo preso coscienza quarant’anni fa con il terrorismo domestico è ritornato davanti a noi con il terrorismo internazionale. Anche qui, quando è minacciata, la democrazia ha il diritto di difendersi, e questo diritto diventa l’esercizio di un dovere davanti ai suoi cittadini in cerca di tutela. Aggiungo quel che ho scritto più volte: so che è controverso, ma a mio parere la democrazia deve difendersi e deve difendere i suoi valori con ogni mezzo, anche con il mezzo estremo e per lei contro-natura della guerra, e se necessario persino con la contraddizione della guerra preventiva, quando non esistano altri strumenti di prevenzione. Ma vige sempre l’obbligo per la democrazia di non trasformarsi per legittima difesa in qualcosa di diverso, finendo per assomigliare alla caricatura deforme che ne fanno i suoi nemici. Vale il diritto, anche sotto attacco, valgono i diritti, anche in emergenza. Le istituzioni di garanzia non si possono bypassare, il diritto internazionale va rispettato.

GZ: Queste tue considerazioni ci portano in un territorio dove i ragionamenti, invece che fare chiarezza, confondono le idee. La democrazia è il regime della regolarità: presuppone diritti di cui tutti possano disporre normalmente; ha le sue procedure che devono funzionare ordinariamente; ha i suoi mezzi d’intervento in situazioni normali. Ora, sei d’accordo con me nel riconoscere che la più anormale delle situazioni è la guerra. Dici che è «contro-natura». Non si può non concordare. Noi abbiamo una Costituzione in cui è scritto il «ripudio della guerra» (articolo 11): un’espressione molto forte che si spiega non solo per le diecine di milioni di morti la cui ombra pesava sui lavori della Costituente (Dossetti ha scritto che questo peso e l’esigenza del «mai più» furono la convinzione comune che rese possibile l’accordo tra partiti pur così lontani ideologicamente), ma si spiega anche perché la guerra è in sé la negazione della democrazia. È forza scatenata. La guerra libera la violenza, anche quella più turpe, sia contro i nemici esterni (i detenuti in carceri speciali o in «campi» come ad esempio Abu Ghraib o Guantanamo), sia contro gli interni (i «disfattisti»). Non è facile fare la guerra e tenere sotto controllo queste aberrazioni. Coloro che esaltano la guerra come lavacro morale delle nazioni, esaltazione dei buoni sentimenti e della solidarietà, non sanno quello che dicono. Dunque: no alla guerra. Questo dice la teoria e l’esperienza. Ma… Qui, appunto, i ragionamenti incontrano il loro limite. Tu non devi fare guerra. Chiaro. Ma se qualcun altro la fa o la sta preparando contro di te, e con mezzi bellici terribili e definitivi? E se qualcuno usa la violenza contro altri per opprimerli o sterminarli e questi ti chiedono aiuto? Nessuno, credo, negherebbe il diritto alla legittima difesa e nemmeno la Costituzione, in questi casi, lo esclude. Anche i pacifisti più rigorosi non lo negano. Negano invece l’efficacia della violenza per vincere la violenza e propongono mezzi diversi, non violenti. Ma qui siamo nel campo dei convincimenti che si mescolano alle fedi. Per questo, dicevo, i ragionamenti sono inconcludenti. D’altra parte, tu puoi essere pacifista fino all’estremo ed essere disposto al martirio per testimoniare la tua fede, ma ti sentiresti di rimanere inerte quando altri che non partecipano della tua fede sono esposti alla violenza? Ti sentiresti di dire loro: in nome di ciò che io credo, tu lasciati massacrare? Non sarebbe questa, a sua volta, un’estrema violenza, per di più rivestita di buoni sentimenti?

EM: Sì, mi pare che si possa dire così. Non è forse una macchia indelebile l’atteggiamento attendista, per non dir di più, che gli Alleati tennero nei confronti della Germania nazista, al tempo dello sterminio degli ebrei, una macchia che si cerca di scolorire dicendo: non sapevamo?

GZ: Però, sappiamo anche quanta ipocrisia possa esserci nelle «guerre preventive», nelle «guerre umanitarie». Sappiamo che possono coprire i più ignobili interessi, politici ed economici. Possono perfino essere occasioni per la sperimentazione in grande stile della tecnologia bellica.

EM: Occorre allora moltiplicare le cautele e i controlli. In concreto: dopo l’11 settembre la risposta politico-militare in Afghanistan ha seguito questo percorso. La guerra in Iraq no. Per questo era sbagliata, anche se ha portato alla liberazione dal dittatore…

GZ: …e le modalità della sua cattura e impiccagione mi sono sembrate una inutile e rivoltante crudeltà, tanto più in quanto mossa dalla nostra civiltà.

EM: L’impiccagione ripugna alla democrazia, anche quando è in guerra. Ma in Iraq, stavo dicendo, non c’era la connessione evidente e provata con la lotta al terrorismo, con l’attacco mirato ad al-Qaeda, ed era addirittura fasulla la connessione con le armi speciali da distruggere. Per queste ragioni la democrazia ha danneggiato se stessa, perché si è rivelata ideologica. Ha dovuto ricorrere alla menzogna verso i suoi cittadini per poter essere ideologica. Una colpa rilevante, perché le democrazie hanno parecchi doveri in più rispetto ad altri regimi, e anche nel difendersi devono giustificare ciò che fanno, misurando l’azione alla reazione, i mezzi ai fini. Questo significa che non possono – non devono – inventare giustificazioni pretestuose o di comodo ad azioni che non si giustificano da sé. L’ho scritto allora su «Repubblica», ne sono convinto anche oggi: a differenza di quanto è successo a Washington, le democrazie non devono invocare il sostegno del Paese alle scelte più controverse dei governi mistificando i dati di conoscenza e gli elementi di valutazione, perché un consenso costruito su un artificio menzognero inficia lo stesso principio di legittimità del potere, inganna l’opinione dei cittadini, tradisce la fiducia tra elettori ed eletti che sta alla base della rappresentanza. Con il risultato che tutto il meccanismo della deliberazione finisce per essere deviato, e il discorso pubblico – che lega insieme governanti e governati – diventa contraffatto, cioè infedele.

GZ: Sì, ma purtroppo tenere la guerra sotto il controllo democratico e quindi sotto la legge della verità è un’impresa difficilissima. La guerra è il tempo della propaganda, non della verità. E la propaganda usa la menzogna. L’opinione pubblica è corriva, in questi casi. Sembra avere interiorizzata la scusabilità della menzogna, averla giustificata. Bill Clinton è stato crocefisso per le bugie dette nella sua storia boccaccesca. Bush e Blair, per la guerra costruita su prove falsificate, no. Nessuno ne parla più. Eppure, anche dal punto di vista del diritto internazionale ci sarebbe molto da dire. La questione è chiusa non in diritto, ma in fatto. Hanno vinto la guerra, ma se l’avessero persa, loro, i loro consiglieri e gli affaristi che li spingevano, sarebbero davanti a una Corte penale internazionale.

EM: Vedi l’importanza dei vincoli? Com’è infinitamente più difficile procedere per un governo che vive e opera nel sistema democratico? Naturalmente molti diranno che questi sono solo formalismi, pastoie democratiche, e che la democrazia vive nella decisione e nell’immediatezza del comando, altrimenti si corrompe nei mille passaggi che bloccano la spada quando deve essere sguainata, limitandone la forza. Ma questi obblighi che qualcuno chiama formalismi, sono in realtà un sistema di garanzia continua, l’unica garanzia che possiamo darci e che per rimanere tale non contempla eccezione. La democrazia è per questo lenta, faticosa e grigia? Ma è grazie a questo sistema di garanzia e ai suoi passaggi obbligati che noi siamo liberi mentre viviamo, riuniamo i parlamenti, mandiamo a scuola i nostri bambini, viaggiamo, preghiamo e leggiamo. La fluidità normale della nostra esistenza, che è poi la naturale velocità della libertà, è frutto e merito di quei passaggi, di quelle regole, di quegli obblighi che noi chiamiamo democratici, perché sono l’unico sistema che consente ai cittadini di partecipare al controllo, di prendere parte, di restare in gioco.

GZ: Sì, è verissimo. La democrazia è contraria ai tempi stretti. Deve darsi i suoi tempi, i tempi della deliberazione che devono contemplare informazione, discussione e controlli sulle decisioni. In questo, la democrazia è forte quando può distendersi; è debole quando si rattrappisce. Bisogna accettare la sfida. Abbreviandosi i tempi, è naturale che ci si debba maggiormente fidare di coloro cui si affidano le decisioni, e quali decisioni! Proprio per la loro irrevocabilità, dobbiamo sapere fino in fondo in quali mani ci mettiamo, quali interessi le muovono, se ci sono altri soggetti, invisibili, che le manovrano. C’è più bisogno di verità e meno di messe in scena. Il contrario di quel che abbiamo sotto gli occhi e che spesso è un trompe-l’oeil: non riusciamo a rivelare soprattutto quando la rivelazione sarebbe più importante.

EM: C’è però ancora un punto che mi sta molto a cuore, ed è il legame tra la democrazia e l’Occidente. Dico questo non in termini esclusivi naturalmente. Intendo dire che la democrazia così come la penso – dei diritti e delle istituzioni – è intanto la forma dell’Occidente, anche quando non lo sa. Dovrebbe intanto essere ancora più chiaro oggi, quando è finito il lunghissimo dopoguerra che ha confiscato il concetto di Occidente nella categoria riduttiva dell’opposizione (o del baluardo) contro il «nemico ereditario», le Russie ideologizzate in sistema totalitario dalla corazza comunista dell’impero sovietico. Io credo e spero che noi possiamo e dobbiamo considerarci occidentali non più per differenza, ma per coscienza: siamo la terra appunto della democrazia dei diritti, della democrazia delle istituzioni, non so dirlo altrimenti, né vorrei. Nient’altro che questo, ma è tantissimo.

E guarda che l’11 settembre ci impone questa consapevolezza che sembriamo scordarci, scordandoci di noi stessi. Voglio dire che l’11 settembre ci pone in forma drammatica il tema della democrazia. Possiamo arrivarci anche in altro modo, e il risultato è identico. Perché l’11 settembre e i suoi seguiti diversi ma coerenti come gli attentati di Londra e Madrid ci costringono finalmente a domandarci: chi siamo, oggi? Nel mondo in cui stiamo entrando noi chi siamo davvero, i vincitori tecnologici, economici e culturali o le vittime sacrificali designate? Capisco che è una domanda da finesecolo disorientato, più che da inizio di un nuovo millennio. Ma fammela ripetere. Non avevamo fatto davvero i conti, appagati dall’esito apparente del Novecento, ed eccoci qui, con il secolo che si è aperto nella tragedia mostrandoci che ciò di cui stiamo vivendo è proprio ciò di cui stiamo morendo, ciò di cui fatichiamo a comprendere il valore nelle vecchie categorie della nostra cultura politica sfidata nella sua essenza: l’attacco è infatti alla quotidiana normalità civile, alla semplice democrazia fatta dei gesti di ogni giorno, pubblici e privati, all’ordinaria libertà nella forma simbolica ma viva di due grattacieli a New York, un treno a Madrid, una scuola a Beslan in Ossezia. Dovevamo capire subito che lo scarto tra noi e gli attentatori non era soltanto politico e criminale, ma culturale, dovevamo capire che quell’assalto poteva compiersi in un modo solo, cioè con la semplicità dell’impossibile. Voglio dire che il terrorismo poteva riuscire solo se pensava ciò che la cultura democratica non riesce a concepire. E infatti quegli aerei volati sulle Torri gemelle sono arrivati a centrare il bersaglio proprio perché hanno volato sotto la linea d’ombra del pensiero occidentale che è un pensiero democratico, fuori non solo dai vincoli morali di ogni atto politico, ma addirittura dal calcolo cartesiano del rapporto tra costi e benefici, con la vita del kamikaze che non conta nulla rispetto al martirio promesso col fanatismo della strage.

GZ: Cerco di seguire la tua vivida esposizione. Dici diverse cose. Innanzitutto, dici che oggi è il tempo di essere democratici non per differenza, ma per convinzione. Questo significa, mi pare, esserlo non usando la democrazia come strumento ideologico per condurre guerre o alimentare ideologicamente le contrapposizioni, ma proponendola senza secondi fini come formula di convivenza, aperta a tutti. Intendo bene?

EM: Mi pare di sì. Non sei d’accordo?

GZ: Certo che sì. Ma allora dobbiamo chiederci perché questa proposta non piace a tutti. Sarebbe facile la risposta, se il rigetto venisse soltanto da autocrati, despoti, oppressori del più vario tipo. Diremmo semplicemente ch’essi sono contro la democrazia perché sono per la loro autocrazia, il loro dispotismo, il loro potere oppressivo. È così ma, purtroppo, non solo così. Il fatto è che la nostra democrazia, la democrazia dell’Occidente, presenta caratteristiche che non piacciono affatto anche alla gente comune. Propone forme di vita quotidiana che a noi sembrano libertà e a loro sembrano violenza: violenza alla loro identità. Ritorneremo sul concetto d’identità. Qui, basta dire: violenza alle loro tradizioni di vita comunitaria ch’essi non necessariamente considerano oppressive ma, al contrario, protettive. Per esempio: la nostra democrazia si basa sull’individuo o sulla persona, come meglio si voglia dire, e sui suoi diritti prevalenti sulla comunità. Ci sembra ovvio. Ma il primato dell’individuo, abbattendo le barriere culturali comunitarie da cui gli individui di gruppi più deboli sono pur sempre protetti sul lato esterno, può creare quella superficie tutta liscia sulla quale scorre l’omologazione illimitata degli esseri umani e li trasforma in informe umanità. Per l’islam può esserci una percezione di questo tipo, può esserci il timore che la nostra democrazia distrugga il loro modo di vita comunitario. Quello che per noi è liberazione, per esempio dall’oppressione della componente maschile su quella femminile della vita comunitaria, per altri può essere violenza. È difficile da ammettere dal nostro punto di vista, ma dal loro può essere così. Altro esempio: la democrazia dell’Occidente è, inutile negarlo, la forma di governo della parte ricca del mondo, quella che l’economia capitalistica ha reso ricca. Almeno così è stato storicamente. Noi diciamo: democratizzatevi e vi arricchirete anche voi. Ma loro dicono: vi siete arricchiti sullo sfruttamento nostro, delle nostre risorse, dei nostri popoli e state continuando a distruggere le nostre culture. Non saranno più le forme del colonialismo e dell’imperialismo d’un tempo, ma la storia continua con i regimi che ci opprimono col sostegno dell’Occidente democratico. E, anche se la vostra democrazia ci promette maggiore benessere materiale, il sistema economico su cui si basa distrugge il nostro patrimonio morale. Non è il vostro benessere, quello che ci interessa.

Qui non importa dove stiano la ragione e il torto. Importa il fatto che il nostro essere Occidente è visto come portatore di veleni distruttivi ai quali noi per primi dovremmo cercare di porre rimedio. In altri termini, la democrazia come valore universale presuppone molti atti di contrizione da parte nostra per cercare di liberarla da una storia di compromissione col dominio politico, economico e culturale. Non dovremmo stupirci se la nostra democrazia a qualcuno appare un regime odioso, che avvelena proprio la vita quotidiana. Noi dobbiamo difenderci, non c’è dubbio. Ma dobbiamo anche interrogarci. L’Occidente come ideologia ha tanti acritici corifei, ma è un’ideologia di guerra. Abbiamo bisogno di capire quello che, oggi, è l’altro, cioè il mondo islamico e, contemporaneamente, abbiamo bisogno di comprendere noi stessi, in tutti i nostri aspetti, anche quelli che non sappiamo o vogliamo vedere. Del resto, se rileggiamo il grande discorso che Barack Obama ha tenuto all’Università del Cairo il 4 giugno 2009 – il «discorso della mano tesa» o «del nuovo inizio» – non vi troviamo chiaramente espressa questa necessità? Fino a qualche decennio fa, la grande divisione era tra l’Occidente democratico e l’Oriente totalitario. Libertà contro il «dispotismo orientale» che si riproponeva nella forma dei regimi comunisti*. Oggi un nuovo contrasto è in atto. Si corre il rischio di sostituire l’islam al comunismo.

Tu, poi, ti stupisci degli atti di violenza portati alla normalità della vita nelle nostre società? A me non sembra che ci sia molto da stupire, perché ciò contro cui i terroristi agiscono è, sì, un potere che avvertono come nemico, ma ancor prima è la corruzione della loro concezione della vita quotidiana, che sentono insidiata da modelli per loro inaccettabili.

EM: Un conto sono i modelli astratti, un altro conto è la libertà concreta. Vedi, io capisco che spesso non siamo credibili come Stati, come governi e Paesi, per le nostre politiche e le nostre incongruenze. Ma la democrazia, i suoi principî, i suoi diritti e le sue libertà? Io mi sono sempre interrogato, con molta inquietudine, sui terroristi islamisti di seconda generazione. Vorrei sapere se anche tu hai la medesima inquietudine. Com’è possibile, mi domando da anni sul mio giornale, che ragazzi nati a Londra, cresciuti nella civiltà europea, abituati al cosmopolitismo metropolitano e al multiculturalismo quotidiano, scelgano di inabissarsi nel loro passato familiare retrocedendo a una cultura di morte piuttosto di vivere la libertà quotidiana, che molto semplicemente ti permette di studiare, di lavorare, di frequentare la moschea, di scegliere l’ultimo romanzo in libreria, di parlare con una ragazza al pub, di andare a vedere l’Arsenal in curva? Dunque la democrazia non ha una sua naturale, autonoma e spontanea capacità di attrazione, di conversione, e quindi di immunizzazione e di garanzia? O forse siamo noi occidentali che non abbiamo la capacità di testimoniare la democrazia rendendola credibile, e dunque non sappiamo conquistare altri alla libertà in cui crediamo? E qui nasce la domanda capitale: contro cosa combattono coloro che ci attaccano? Perché siamo diventati loro nemici noi, l’Occidente che ha vinto, i Paesi liberi, le buone vecchie democrazie, gli Stati di diritto liberali? In una parola, chiediamoci che cosa ci lega alla parte oscura del mondo, e rovescia la nostra civiltà in qualcosa da annientare. È una domanda a cui siamo impreparati. Faticosamente, la democrazia proprio qui in Europa è riuscita a fuoruscire dalle ideologie che hanno messo a ferro e fuoco il continente minacciando il mondo, ed è prevalsa con la convinzione di aver compiuto la storia, affermando un modello finalmente universale, l’unico sopravvissuto dopo lo scontro con i totalitarismi. La guerra fredda è finita con la caduta del Muro e dell’Urss, quindi abbiamo pensato, alla fine, che la democrazia non solo avesse vinto, ma che fosse diventata cultura condivisa, egemone. E che dunque potesse aprirsi un periodo di tregua ideologica, con il sistema complessivo capace di governare crisi, lotte e antagonismi dentro il modello culturale democratico, senza più doversi difendere da una sfida e da una minaccia a quel modello.

Invece la storia non era compiuta e l’11 settembre l’ha in ogni caso riaperta, sfigurandola. Ho sempre considerato, fin dal primo giorno, l’attacco alle Torri come un attacco non solo all’America ma alla democrazia, in questo senso all’Occidente intero, dunque qualcosa che ci interpellava direttamente. Ecco perché non bastava e non basta dire «siamo tutti americani» (la compassione), ma era giusto e necessario dire «siamo tutti occidentali», cioè assumere la responsabilità di una condivisione. Se vogliamo dare un nome alla fase che apre il secolo col volo sulle Torri, dobbiamo parlare di qualcosa che non avevamo previsto e che cambia l’intero paradigma costruito dopo la caduta del Muro: l’attacco alla democrazia. Diciamolo così: la cultura politico-istituzionale superstite del Novecento, che credevamo pacificamente egemone, è sfidata dopo aver vinto e noi vediamo che il vecchio secolo – altro che breve! – non riesce a chiudersi, non riconosce il saldo: o che il nuovo non accetta il suo lascito più importante. Guai dunque a chiederci per chi suona la campana. Davanti agli attentati neppure la comprovata autonomia dei diversi terrorismi può impedirci di fare sequenza, di ragionare su un effetto ogni volta globale perché dovuto a una sorta di coinvolgimento di sistema, alla sensazione di far parte dello stesso mondo scelto a bersaglio da un altro mondo che non consideravamo nemico ma ci sta braccando mentre nega valore – ecco la scoperta inaudita – ai nostri valori più alti e ai nostri gesti minimi. Questo coinvolgimento ci dice che si colpiscono gli Stati, si uccidono gli uomini e le donne, ma la sfida è alla democrazia, un sistema di istituzioni, regole e diritti che a noi sembrava risolto nella sua capacità di garantire la convivenza, e che era comunque il portato delle nostre storie, addirittura il superamento dei nostri errori, e faticosamente si era imposto. La condivisione nasce dalla minaccia a questa costruzione politico-istituzionale-sociale che è insieme il risultato di lotte e conquiste e un sistema condiviso di garanzie, fino a diventare il vero sistema di credenze dell’Occidente, la vera religione secolarizzata.

GZ: Dici cose terribili che devono scuotere le nostre sicurezze. Non perché noi stessi si debba ripudiare la democrazia, una volta che sia caduta l’illusione sulle sue universali virtù benefiche. Io credo all’universalità dei valori democratici ma, proprio per questo, credo anche che «la nostra democrazia» debba sottoporsi a molte considerazioni autocritiche perché sia capace di generalizzarsi vincendo le diffidenze. Quando chiedi come sia possibile che «ragazzi nati a Londra, cresciuti nella tolleranza della civiltà europea, abituati al cosmopolitismo metropolitano e al multiculturalismo quotidiano, scelgano di inabissarsi nel loro passato familiare retrocedendo a una cultura di morte piuttosto di vivere la libertà quotidiana, che molto semplicemente ti permette di studiare, di lavorare, di scegliere l’ultimo romanzo in libreria, di parlare con una ragazza al pub, di andare a vedere l’Arsenal in curva» poni una domanda per noi capitale, alla quale non siamo capaci di dare risposta perché partiamo dal nostro punto di vista. I ragazzi che tu descrivi non sono forse la copia dei figli nostri. Dal nostro punto di vista possiamo solo dire: non comprendiamo. Forse però dovremmo cercare di capire qual è lo sfondo di questo modo di vivere e quali le implicazioni per loro. Lì forse c’è la risposta, una risposta che, a sua volta, pone a noi occidentali non poche domande.

EM: Ma tutto questo ci pone di fronte alla scoperta improvvisa del relativismo di un valore per noi assoluto come la democrazia, così relativa da poter essere trasformata da qualcuno in insegna negativa, con cui si marchia quella parte del mondo dove si vuole portare la morte. Questo limite dell’universalismo democratico (Huntington ci aveva già avvertiti), questo ecumenismo democratico che si rivela impossibile, ha però un contraltare: l’attacco ad un Paese democratico diventa universale, mondializza la minaccia, dunque rende la democrazia sistema o addirittura civiltà comune, ci fa capire che siamo cittadini di singoli Stati, di un’Europa che non riesce a compiersi, ma soprattutto di un’unica civiltà democratica da difendere. E qui, in questo contesto, si capisce ancora di più quel che dicevamo prima: l’obbligo per la democrazia di difendersi restando se stessa, senza lasciarsi deformare dalla tentazione dell’emergenza. Non solo: se le democrazie e il loro popolo si sentono «sistema» davanti alle stragi e alla sequenza di attentati, devono ricordare che quel sistema esiste nella realtà e si chiama Occidente, perché questo è il deposito e il risultato dei nostri valori, e per questo viene attaccato e minacciato. Come al-Qaeda è sempre più il preambolo comune di terrorismi tra loro distinti, che sfidano la democrazia occidentale vedendola come una cosa sola, così la democrazia è il carattere fondamentale delle due civiltà politiche in cui viviamo, quella europea e quella americana. Ne consegue qualche obbligo. Gli Stati Uniti non possono procedere da soli come hanno fatto per arrivare in Iraq, dividendo l’Europa per usare i singoli Stati invece dell’insieme, interpretando l’Occidente come un sistema di delega per la loro sovranità egemone: anche se fare i conti con l’Europa significa fare i conti con il diritto internazionale, con la politica e non solo con la forza, con gli organismi di garanzia e il loro sigillo di legalità. Dall’altra parte l’Europa deve sapere che se il bersaglio è la democrazia occidentale nel suo insieme, non si può lasciare l’America sola, perché l’11 settembre interpella tutti, e attende anche da noi una risposta.

Ezio Mauro, 62 anni, piemontese, è direttore di Repubblica dal 1996. Gustavo Zagrebelsky, giurista ed ex presidente della Corte Costituzionale, ha 68 anni de è anche lui piemontese. Il loro libro-conversazione si chiama “La felicità della democrazia” (Laterza).

(FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)