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  • Sabato 21 maggio 2011

Il confine più pericoloso del mondo

È quello tra India e Pakistan, l'Economist spiega perché

India e Pakistan nacquero come stati sovrani indipendenti il 15 agosto del 1947 dalla partizione del subcontinente indiano, seguita al collasso dell’impero coloniale britannico. Da allora hanno combattuto tre guerre in cui sono morte oltre settantamila persone. L’Economist di questa settimana dedica la copertina al confine che li separa, il più pericoloso del mondo.

I due stati si costituirono intorno a due idee profondamente diverse di nazionalismo: da un lato il nazionalismo indiano, rappresentato dall’Indian National Congress e dal suo leader Jawaharlal Nehru, fautore di un’India laica, multiculturale e multireligiosa; dall’altro, Muhammad Ali Jinnah, il padre fondatore del Pakistan (“la terra dei puri”), che invece avanzava un’idea di nazione basata sull’Islam quale elemento culturale comune. Lo stato del Kashmir costituì un’eccezione nel contesto della spartizione su base religiosa, perché nonostante la sua popolazione fosse in maggioranza musulmana, il sovrano hindu — il Maharaja Hari Singh — decise di firmare l’annessione all’Unione Indiana.

Ne seguì un primo conflitto che si concluse solo nel 1949 con la divisione della regione in due parti: il Jammu Kashmir, assegnato all’India e lo Azad Kashmir, assegnato al Pakistan. Da allora il Pakistan ha continuato a rivendicare il territorio indiano — quello più esteso, con capitale Siringar — assumendo posizioni sempre più aggressive e intensificando le sue pressioni politiche fino a sostenere la formazione di movimenti insurrezionali. Alcuni di questi chiedono la costituzione di uno stato sovrano e indipendente, come accadde per il Bangladesh nel 1971.

L’ultimo tentativo diplomatico tra i due Paesi si è interrotto nel 2008, in seguito alle accuse di Delhi contro alcuni militanti con base in Pakistan, sospettati di aver compiuto gli attentati di Mumbai. Anche se lo scorso marzo il primo ministro del Pakistan, Yousuf Raza Gilani, ha accettato l’invito del premier indiano Manmohan Singh di andare ad assistere alla semifinale della Coppa del mondo di cricket tra India e Pakistan. E i loro rispettivi ministri degli Esteri dovrebbero incontrarsi a luglio.

I morti sul confine non sono l’unico parametro con cui misurare i danni di questa relazione avvelenata, spiega l’Economist. In India il conflitto ha esacerbato i conflitti tra musulmani e indù. In Pakistan ha finito ancora più pericolosamente per distorcere l’intera linea politica dello stato. L’ossessione del Pakistan nei confronti dell’India lo ha danneggiato in tre modi.

1. Ha dato troppo potere ai suoi generali. L’esercito pakistano, 550mila uomini in tutto, è troppo piccolo rispetto a quello indiano di oltre un milione ma troppo grande per il Pakistan. Le forze armate assorbono il 16 percento dell’intero budget dello stato, mentre l’educazione si prende solo l’1,2 percento. Dal momento che l’esercito è potente, il governo è debole e le frequenti intromissioni degli apparati militari nella politica dello stato finiscono solo con l’esacerbare il conflitto con l’India e minare quindi la democrazia.

2. Ha condizionato le relazioni con l’Afghanistan. Negli anni Novanta il Pakistan aiutò i talebani per minare il potere degli alleati indiani nel nord dell’Afghanistan. Nonostante dall’undici settembre il governo si sia ufficialmente alleato degli Stati Uniti nella lotta contro i talebani, i servizi segreti hanno continuato comunque a proteggere alcune cellule talebane per controbilanciare l’influenza dell’India in Afghanistan. La recente uccisione di Bin Laden in una città a pochi chilometri da Islamabad ha sollevato molti dubbi su una possibile complicità dell’intelligence pakistana con al Qaida.

3. Ha spinto il Pakistan a fomentare il terrorismo islamico. Dopo l’attentato contro il parlamento indiano nel dicembre del 2001, il governo pakistano ha ufficialmente bandito il gruppo estremista Lashkar-e-Taiba (LeT) ma di fatto ha lasciato che prosperasse. Il Pakistan sostiene che il gruppo era ormai già diventato troppo potente per poterlo soffocare del tutto, l’India invece sostiene che si sia rafforzato proprio con grazie al tacito consenso del governo di Islamabad. Il risultato in ogni caso è che il terrorismo pakistano si è notevolmente intensificato negli ultimi anni.

Il conflitto tra i due paesi è nato sulla base di un potente mix di religione, storia e territorio. La tensione è talmente alta che il governo indiano censura tutte quelle testate, compreso l’Economist, che mostrano mappe dei confini attuali. E anche chi vorrebbe cercare una pacificazione finisce spesso sotto il ricatto delle frange più estreme dei rispettivi governi: in India i nazionalisti indù, in Pakistan i gruppi estremisti musulmani e i generali, che continuano a vedere l’India come un problema militare anziché politico. Entrambi i paesi poi sono ormai dotati di armi nucleari. Da quando nel 2008 gli Stati Uniti accordarono all’India la possibilità di investire sul nucleare per uso civile, la determinazione del Pakistan a costruirsi un proprio arsenale nucleare è notevolmente cresciuta. Il mese scorso il governo ha annunciato di avere testato un nuovo sistema di missili nucleari progettati per distruggere carri armati nemici, aumentando quindi il rischio concreto che un nuovo conflitto di confine potrebbe trasformarsi in qualcosa di molto più pericoloso.

Gli ingredienti necessari per migliorare la situazione sono chiari. Il Pakistan deve fermare i gruppi estremisti e l’India deve ritirare il proprio esercito dal Kashmir, concedendo piena autonomia ai territori che rivendicano l’indipendenza e smettendo di sparare ai giovani che lanciano pietre contro i loro soldati. Centoventi persone morirono in questo modo durante le proteste della scorsa estate. Gli Stati Uniti possono essere di grande aiuto in tutto questo. Dovrebbero sfruttare la loro influenza sull’India per convincere il governo ad allentare la presa militare sul Kashmir. E dovrebbero cambiare il loro approccio con il Pakistan. Gli Stati Uniti continuano a offrire supporto all’esercito pakistano e tendono a usare come interlocutori i generali molto più del governo. L’anno scorso, per esempio, hanno fatto pressioni affinché il governo rinnovasse l’incarico del generale Ashfaq Kayani. Quest’anno l’esercito è stato informato prima del governo sulla morte di Bin Laden.

Nell’insieme un accordo tra i due stati non renderebbe il Pakistan del tutto sicuro, ma sicuramente incoraggerebbe una serie di importanti cambiamenti che nel lungo periodo potrebbero davvero trasformare radicalmente il paese. Tenere a bada i generali, rafforzare le istituzioni democratiche, investire di più su scuola e sanità, arginare il terrorismo islamico, ripensare la sua politica con l’Afghanistan. Finché questo non accadrà, conclude l’Economist, il Pakistan resterà un’occasione sprecata e un pericolo per il mondo.