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  • Venerdì 22 aprile 2011

L’ultimo desiderio di Christian Longo

Un uomo condannato a morte in Oregon ha chiesto di poter donare i suoi organi dopo l'esecuzione

Christian Longo ha 37 anni ed è detenuto in un carcere dell’Oregon, negli Stati Uniti. Dieci anni fa ha strangolato a morte la moglie MaryJane e la figlia Madison, di due anni: poi ha messo i loro corpi in due valigie e li ha gettati in mare. Poco dopo Longo ha ucciso gli altri due suoi figli, uno di quattro anni e una di tre anni, legando alle loro caviglie delle federe piene di pietre e gettandoli nelle insenature gelide dell’oceano in Oregon. Era il dicembre del 2001. Sono passati dieci anni, nel frattempo Longo è stato condannato a morte. Ha espresso un desiderio, però, e lo ha illustrato in un articolo pubblicato il 5 marzo dal New York Times.

Otto anni fa sono stato condannato a morte per avere assassinato mia moglie e tre bambini. Sono colpevole. Per un po’ ho pensato di poter prendere in giro gli altri e far credere loro che fossi innocente. Non ci sono riuscito. Allora ho cercato di convincermi che quello che avevo fatto non aveva importanza. Gradualmente, però, ho compreso l’enormità di quello di cui mi sono macchiato. Ne è seguito il rimorso e da lì il desiderio di fare qualcosa.

Longo ha fatto questa richiesta già alcuni anni fa, affidandosi a un giornalista del New York Times (la storia è più lunga di così: Longo era in fuga dopo gli omicidi, in Messico, e diceva a tutti di essere un giornalista del New York Times, quel giornalista del New York Times, che non aveva mai conosciuto). Longo ha detto di essere disposto a rinunciare a ogni ricorso ancora in piedi se gli sarà data la possibilità di donare i suoi organi dopo l’esecuzione. Fino a questo momento la sua richiesta è stata respinta dalle autorità della prigione. Se la sua richiesta dovesse essere accolta, Longo potrebbe essere ucciso entro novanta giorni; con i ricorsi, invece, l’esecuzione potrebbe essere ritardata di almeno dieci anni. Ogni giorno, negli Stati Uniti, diciannove persone muoiono mentre aspettano un cuore, un fegato, un rene o altri tessuti trapiantabili. Le liste d’attesa contano oltre 110.000 persone.

Non ci sono leggi che impediscono ai condannati a morte di donare i loro organi, ma non ho trovato nessuna prigione che mi permetta di farlo.

Le ragioni opposte alla richiesta di Longo sono molte e di vario tipo. Dal punto di vista medico, c’è il problema degli effetti dell’iniezione letale: i detenuti vengono uccisi con un cocktail di tre sostanze che danneggia gravemente gli organi e rende quindi inutile il loro espianto. Ci sono due Stati, però, l’Ohio e Washington, che utilizzano una sola sostanza letale dall’effetto rapido e che non danneggia gli organi. Longo chiede all’Oregon di adottare questa procedura. Un’altra obiezione ha a che fare con la diffusione dell’AIDS tra i detenuti, ma qui basterebbe un normale test al sangue per dirimere la questione.

Il problema più grande è filosofico, etico. La storia degli Stati Uniti e degli istituti di detenzione, infatti, contiene vari episodi di abusi su persone detenute, usate per esperimenti medici. Proprio in Oregon dal 1963 al 1973 molti detenuti vennero pagati perché si prestassero ad alcuni esperimenti sugli effetti delle radiazioni sulle cellule dei testicoli. Molti temono che ammettere le donazioni degli organi da parte dei condannati a morte possa rendere più facili abusi e violenze. Longo risponde che nel suo caso si tratta semplicemente di una sua volontà e che non ha ricevuto alcuna pressione. Ma altri sostengono che la semplice condizione di condannato a morte basti a non poter considerare davvero “volontaria” la sua intenzione. «Non credo che vogliamo essere il tipo di società che prende gli organi dai detenuti», ha detto il dottor Paul R. Helft, direttore del centro Charles Warren Fairbanks per l’Etica Medica dell’Università dell’Indiana. «Farlo vorrebbe dire usare i detenuti come mezzi in relazione a un certo fine».

L’utilizzo degli organi espiantati dai condannati a morte non è vietato da nessuna legge ma è censurato dall’istituto che regola donazioni e trapianti di organi negli Stati Uniti, lo United Network for Organ Sharing. I detenuti possono donare degli organi quando sono in vita – un rene, per esempio – ma gli Stati decidono caso per caso e spesso limitano questi episodi ai casi che riguardano la donazione di un organo da un detenuto a un suo parente stretto.

Ieri la storia di Christian Longo è stata raccontata da JoNel Aleccia sul sito di Msnbc. Aleccia fornisce tra l’altro un particolare spiazzante, che mostra la confusione delle leggi statunitensi in materia. La legge, infatti, già oggi consente di espiantare gli organi da persone detenute morte in carcere, sia se decedute per cause naturali sia se decedute a seguito di un’aggressione violenta. “Longo avrebbe maggiori possibilità di donare i suoi reni se gli venisse un infarto e morisse poco dopo in ospedale”, scrive la giornalista. L’articolo di Christian Longo pubblicato il mese scorso dal New York Times si concludeva così.

Capisco l’apprensione delle persone. E so che questo potrebbe sembrare un tentativo da parte mia di avere dei privilegi o una riduzione di pena. Dopo tutto, lo scorso dicembre in Mississippi il governatore Barbour ha rilasciato due sorelle che erano state condannate a morte così che una potesse donare un rene all’altra. Ma questo non è il mio caso. Io non lascerò questa prigione da vivo. Non cerco altro che il diritto di decidere cosa fare del mio corpo quando sarà eseguita la sentenza.

Se donassi tutti i miei organi oggi, potrei togliere dalla lista d’attesa dell’Oregon l’uno per cento dei nomi presenti. Ho 37 anni, sono in piena salute. Gettare via i miei organi dopo la mia morte sarebbe nient’altro che uno spreco.

foto: AP Photo/Doug Behtel, Pool