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  • Martedì 19 ottobre 2010

I politici che hanno rovinato tutto

Le storie dei candidati che in pochi minuti hanno compromesso un'intera campagna elettorale

di Francesco Costa

Le campagne elettorali sono storie lunghissime che hanno un inizio e una fine, centinaia di singoli episodi e un filo che lega tutto quanto insieme. Lo sono in generale e lo sono soprattutto negli Stati Uniti, dove hanno raggiunto da tempo un livello ineguagliato di organizzazione e professionismo e dove sono delle imprese individuali, concentrate sulle qualità personali e la storia di ogni singolo candidato. Per queste e altre ragioni il racconto delle campagne elettorali negli Stati Uniti è un vero e proprio genere letterario, capace di produrre e vendere una grande quantità di titoli ogni anno, e per questo la storia delle campagne elettorali è fatta di una quantità infinita di aneddoti e storie da raccontare.

Sono talmente tante che sono a loro volta raggruppate in capitoli, in casistiche. Ci sono le cosiddette sorprese di ottobre, “october surprise”, cioè gli eventi imprevedibili che cambiano il corso di un’elezione nel mese che precede il voto. Ci sono gli spot elettorali, e ce ne sono di meravigliosi e bizzarri, alcuni così efficaci da essere rimasti nella storia. Ci sono i discorsi, e le campagne elettorali negli Stati Uniti hanno di speciale che possono essere cambiate e stravolte così, da un momento all’altro, semplicemente con un discorso o una battuta particolarmente riuscita. Poi ci sono gli errori, e anche quelli possono stravolgere il corso delle cose in un colpo solo: una battuta fuori posto, una serata storta, una telecamera di troppo, un lapsus, un guaio. E la storia delle campagne elettorali statunitensi è fatta anche di candidati che si sono giocati tutto in pochi secondi, sbracando e sprecando il capitale e i consensi accumulati fino a quel momento. Oggi Newsweek raccoglie e racconta un po’ di queste storie: noi abbiamo scelto le migliori.

Sarah Palin
L’impatto di Sarah Palin sulla campagna elettorale di John McCain, nel 2008, fu spettacolare: i numeri dei sondaggi decollarono quasi ovunque, la base repubblicana trovò l’entusiasmo che era mancato fino a quel momento, i giochi erano riaperti. Poi l’allora governatrice dell’Alaska accettò di farsi intervistare dalla giornalista Katie Couric, sulla CBS. Parliamo dell’intervista in cui disse che era un’esperta di politica estera perché dall’Alaska si vede la Russia. L’intervista in cui non seppe dire il nome di un giornale che leggeva. L’intervista in cui non seppe dire una sola delle battaglie di McCain al congresso. Un disastro. Mai nella storia un candidato alla vicepresidenza degli Stati Uniti aveva mostrato tanta impreparazione. I numeri cominciarono a scendere: poi intervennero mille altri fattori, ma sapete com’è andata a finire. E Sarah Palin non ha più dato un’intervista “senza rete di protezione”, da quel momento in poi.
https://www.youtube.com/watch?v=XbQwAFobQxQ
Howard Dean
Magari ve lo ricordate. Era il 2004, Howard Dean era il governatore del Vermont ma soprattutto un candidato democratico alla Casa Bianca. Era il candidato-dei-blogger, quello che usava internet per raccogliere fondi e mobilitare i suoi sostenitori. Una specie di Obama ante litteram: solo che dopo mesi di attesa Obama vinse le primarie in Iowa, quelle che aprono la competizione, mentre Dean ottenne un deludente terzo posto. Entrato nel teatro dove si erano radunati i suoi sostenitori, si lanciò in un discorso surreale: vistosamente su di giri, cominciò a urlare ed elencare gli stati in cui si sarebbe votato e in cui si sarebbe difeso con le unghie e con i denti. Divenne rosso in faccia, sembrava un indemoniato. Lo presero in giro tutti, 24 ore su 24, in tutti i modi possibili e immaginabili: chi gli faceva il verso, chi ne fece una versione dance, chi incollò le sue urla sulle immagini dei film horror. Cercate su Youtube “dean scream” e troverete di tutto. La sua carriera politica, sostanzialmente, si concluse quella sera.


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Jan Brewer
Il Post se n’era occupato un mese fa. Lei è la governatrice dell’Arizona, quella che ha firmato la famigerata legge sull’immigrazione, e all’inizio di settembre sfidava il suo avversario democratico in un dibattito televisivo. Brewer è apparsa incerta e in difficoltà fin dall’inizio. Addirittura già dalla dichiarazione iniziale, un minuto sicuramente provato e riprovato con lo staff che si è trasformato in un incubo. Senza che nessuno la incalzasse, Brewer – che non è una novellina: ricopre incarichi legislativi e governativi in Arizona dal 1983 – si impappina subito, poi si ferma, poi abbassa lo sguardo e cerca di ricominciare, con la voce traballante, per poi fermarsi di nuovo. Un disastro. Poi ha fatto di peggio: quando i giornalisti le hanno chiesto di chiarire le sue dichiarazioni riguardo le “decapitazioni nel deserto” che lei aveva denunciato, è rimasta qualche secondo in silenzio e poi è andata via, piantando tutti in asso. Il giorno dopo si è ritirata da tutti i dibattiti. Tra due settimane sapremo se sarà rieletta comunque.

Caroline Kennedy
La figlia di Kennedy è stata a lungo piuttosto riservata riguardo un suo possibile ruolo in politica, pur mantenendo sempre un profilo pubblico attivo e attento. Stava sempre con un piede dentro e un piede fuori, e appoggiò entusiasticamente la candidatura alla presidenza di Barack Obama. Poi, quando Hillary Clinton lasciò il suo seggio al Senato per trasferirsi al dipartimento di Stato, a qualcuno venne in mente che Caroline Kennedy avrebbe potuto fare la senatrice. Lei sembrava interessata, il suo arrivo al Senato dello zio Ted, tutto era troppo bello e perfetto perché non accadesse. Poi ebbe la sventurata idea di dare un’intervista al New York Times. Anche qui fu un casino raro: un po’ perché riuscì a non dire niente di niente su qualsiasi argomento, un po’ per un tic verbale curioso e bizzarro che la portava a dire “you know” ogni due secondi. Quelli del New York Times ebbero l’idea crudele di mettere sul loro sito l’impietosa trascrizione dell’intervista, ma anche il video è eloquente. Ovviamente del suo arrivo in Senato non si fece più nulla.