Mi scuserà, ministro, se non La chiamerò né «signora» né «ministra», e userò il genere neutro per rivolgermi a Lei: ma è il genere che si addice alle funzioni, e in Lei non riesco a vedere nulla in più di una funzionaria.
Se ne farà una ragione, o probabilmente no: Le assicuro che va bene così.
Sono qui, dunque, a narrarLe la vita di un insegnante: sono cose utili da sapere per chi un giorno volesse dirigere un ministero d’istruzione.
Alcuni anni fa, in un liceo nel quale insegnavo, arrivò una ex studentessa a chiederci di sottoporci a dei test per un esame che doveva sostenere. Erano delle rilevazioni sulla professione di insegnante. Una di queste domande era: «Quando hai deciso di diventare insegnante?» «Mai», risposi tra lo sconcerto dei colleghi (delle colleghe, in verità): «non l’ho deciso, mi è capitato», spiegai. E qui lo sconcerto si trasformò in aperta disapprovazione: ero un insegnante che non si vergognava di ammettere di non sentire l’insegnamento come «missione» o «vocazione», che ammetteva candidamente di non aver avuto come scopo nella vita o negli studi di diventare insegnante. Che, se avesse potuto scegliere, avrebbe fatto altro.
Ah!, lo spirito di missione, quella «condizione di orgasmo e di spasimo, che determina inettitudine all’operare»…
Il fatto è che a me è andata così, come del resto alla maggior parte di noi insegnanti: cominci con qualche chiamata, una qua una là, che accetti perché intanto sono soldi che fanno comodo, specie se sei precario o disoccupato. Poi le chiamate cominciano a diventare frequenti, e a un certo punto diventa difficile fare altro, perché i tempi della scuola tendono a totalizzare la tua vita, e devi scegliere: o entri, e speri che ti vada bene, o lasci. Io ho scelto: non avevo un altro lavoro, avevo una figlia da mantenere, c’era poco da fare lo schizzinoso. Soprattutto perché i molti lavori fatti nel duro periodo della crisi dei primi anni Novanta mi avevano insegnato che ci sono mestieri meno pagati o più duri dell’insegnante (e spesso sia l’una che l’altra). Ed eccomi qui, a cercare di fare al meglio quello che faccio. Molto meglio, ne sono sicuro, delle missionarie animate dal sacro fuoco della vocazione di cui sopra. E molto meglio, per come m’è andata e mi va, di tanti amici e colleghi precari.2
Ma come si diventa insegnanti? Mi è capitato, in una sera di zapping in cui aspettavo che passasse l’attacco di asma, di sentire in televisione una «esponente politica» dalle labbra rifatte – che dunque non si fida neanche della propria bocca – affermare: «Sappiamo tutti che i concorsi per insegnanti sono ridicoli».
Ma davvero è così facile diventare insegnante? Più facile che entrare in politica? Be’, anche se non tutti sono bravi a portare il tacco da dodici e a bazzicare il Billionaire, per essere insegnante ci vuole qualcosa di diverso.
Partiamo da me. Io insegnante lo sono diventato vincendo tre concorsi, due nel 1992 e uno nel 2000. L’ultimo, in verità, era la ripetizione del primo concorso: non avendo avuto la cattedra allora, ho dovuto rifarlo.
I concorsi servono a conquistare quell’ambita certificazione che è l’abilitazione all’insegnamento. In genere si crede (sembrano crederlo anche alcuni ministri, stando a quel che dicono) che nella scuola cominci a fare supplenze, di supplenza in supplenza vai avanti, finché non sei assunto: non è così. Per essere assunto devi avere l’abilitazione, altrimenti puoi insegnare per vent’anni e non sarai mai assunto, cioè non diventerai mai insegnante di ruolo. Però, attenzione: puoi avere l’abilitazione e andare in pensione senza essere mai stato assunto. Allo Stato, e quindi a Lei, conviene: i precari sono sempre al più basso livello salariale (hanno scatti di stipendio per anzianità solo se insegnano religione: «nella scuola italiana il merito non viene riconosciuto, ma la vocazione viene rispettata. E retribuita»), quasi sempre non sono pagati a luglio e agosto, se alla loro cattedra manca un’ora prendono meno… Insomma, i precari sono l’anello di congiunzione tra il lavoratore salariato e l’extracomunitario pagato in nero.