La scuola è di tutti

Girolamo De Michele si rivolge al ministro Gelmini nell'introduzione del suo nuovo libro

di Girolamo De Michele

Mi scuserà, ministro, se non La chiamerò né «signora» né «ministra», e userò il genere neutro per rivolgermi a Lei: ma è il genere che si addice alle funzioni, e in Lei non riesco a vedere nulla in più di una funzionaria.

Se ne farà una ragione, o probabilmente no: Le assicuro che va bene così.

Sono qui, dunque, a narrarLe la vita di un insegnante: sono cose utili da sapere per chi un giorno volesse dirigere un ministero d’istruzione.

Alcuni anni fa, in un liceo nel quale insegnavo, arrivò una ex studentessa a chiederci di sottoporci a dei test per un esame che doveva sostenere. Erano delle rilevazioni sulla professione di insegnante. Una di queste domande era: «Quando hai deciso di diventare insegnante?» «Mai», risposi tra lo sconcerto dei colleghi (delle colleghe, in verità): «non l’ho deciso, mi è capitato», spiegai. E qui lo sconcerto si trasformò in aperta disapprovazione: ero un insegnante che non si vergognava di ammettere di non sentire l’insegnamento come «missione» o «vocazione», che ammetteva candidamente di non aver avuto come scopo nella vita o negli studi di diventare insegnante. Che, se avesse potuto scegliere, avrebbe fatto altro.

Ah!, lo spirito di missione, quella «condizione di orgasmo e di spasimo, che determina inettitudine all’operare»…

Il fatto è che a me è andata così, come del resto alla maggior parte di noi insegnanti: cominci con qualche chiamata, una qua una là, che accetti perché intanto sono soldi che fanno comodo, specie se sei precario o disoccupato. Poi le chiamate cominciano a diventare frequenti, e a un certo punto diventa difficile fare altro, perché i tempi della scuola tendono a totalizzare la tua vita, e devi scegliere: o entri, e speri che ti vada bene, o lasci. Io ho scelto: non avevo un altro lavoro, avevo una figlia da mantenere, c’era poco da fare lo schizzinoso. Soprattutto perché i molti lavori fatti nel duro periodo della crisi dei primi anni Novanta mi avevano insegnato che ci sono mestieri meno pagati o più duri dell’insegnante (e spesso sia l’una che l’altra). Ed eccomi qui, a cercare di fare al meglio quello che faccio. Molto meglio, ne sono sicuro, delle missionarie animate dal sacro fuoco della vocazione di cui sopra. E molto meglio, per come m’è andata e mi va, di tanti amici e colleghi precari.2

Ma come si diventa insegnanti? Mi è capitato, in una sera di zapping in cui aspettavo che passasse l’attacco di asma, di sentire in televisione una «esponente politica» dalle labbra rifatte – che dunque non si fida neanche della propria bocca – affermare: «Sappiamo tutti che i concorsi per insegnanti sono ridicoli».

Ma davvero è così facile diventare insegnante? Più facile che entrare in politica? Be’, anche se non tutti sono bravi a portare il tacco da dodici e a bazzicare il Billionaire, per essere insegnante ci vuole qualcosa di diverso.

Partiamo da me. Io insegnante lo sono diventato vincendo tre concorsi, due nel 1992 e uno nel 2000. L’ultimo, in verità, era la ripetizione del primo concorso: non avendo avuto la cattedra allora, ho dovuto rifarlo.

I concorsi servono a conquistare quell’ambita certificazione che è l’abilitazione all’insegnamento. In genere si crede (sembrano crederlo anche alcuni ministri, stando a quel che dicono) che nella scuola cominci a fare supplenze, di supplenza in supplenza vai avanti, finché non sei assunto: non è così. Per essere assunto devi avere l’abilitazione, altrimenti puoi insegnare per vent’anni e non sarai mai assunto, cioè non diventerai mai insegnante di ruolo. Però, attenzione: puoi avere l’abilitazione e andare in pensione senza essere mai stato assunto. Allo Stato, e quindi a Lei, conviene: i precari sono sempre al più basso livello salariale (hanno scatti di stipendio per anzianità solo se insegnano religione: «nella scuola italiana il merito non viene riconosciuto, ma la vocazione viene rispettata. E retribuita»), quasi sempre non sono pagati a luglio e agosto, se alla loro cattedra manca un’ora prendono meno… Insomma, i precari sono l’anello di congiunzione tra il lavoratore salariato e l’extracomunitario pagato in nero.


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Con i concorsi, se sei arrivato tra i primi, puoi sperare di avere subito il ruolo: altrimenti entri in una graduatoria degli abilitati, e metti su punti anno dopo anno, più o meno come nelle classifiche dei campioni di tennis, finché hai la sospirata assunzione.

Nei concorsi che ho fatto dovevo rispondere sui programmi delle materie che avrei, eventualmente, insegnato: nel mio caso, storia e filosofia, più l’educazione civica e la normativa scolastica. In uno dei tre concorsi la prima domanda era sempre sulla normativa, e chi non rispondeva era bocciato. Nel concorso del 2000 il mio programma d’esame orale prevedeva: tutta la filosofia del triennio superiore, tutta la storia del quinquennio (anche se storia nel primo biennio non posso insegnarla), dieci classici di filosofia con relativa bibliografia, più un percorso triennale, dieci unità didattiche di storia. Per arrivare all’orale avevo sostenuto due scritti, nei quali ero tenuto ad avere un punteggio minimo di 28/40 senza insufficienze: la media del 7, insomma, non la semplice sufficienza. Regione per regione, le percentuali degli ammessi all’orale furono del 15-20%; in alcune regioni il numero degli ammessi all’orale era addirittura inferiore al numero di posti liberi. E all’orale la media dei promossi era più o meno del 60%. Insomma, per ogni 100 partecipanti solo 10-12 arrivarono in fondo.

C’erano altri tipi di concorsi, come quelli riservati a precari che avevano una certa anzianità di servizio: ma, di nuovo, la «sanatoria» consisteva nel poter fare un concorso, non nell’essere promosso d’ufficio. E se le percentuali dei promossi, nel caso dei riservati, erano più alte di quelle dei concorsi ordinari, era perché si trattava di concorsi in cui degli insegnanti dovevano dimostrare di saper fare quello che già facevano: gli insegnanti, appunto.

E niente insegna il mestiere come la pratica in classe: non c’è corso universitario o para-universitario che tenga. È nell’acqua alta che si impara a nuotare, non sui manuali di nuoto: e l’acqua alta è l’immersione in classe.

E così, dopo anni in cui sono rimbalzato da una scuola all’altra, a seconda dei posti a disposizione, sono entrato. Ma su base regionale: arrivai terzo, e il terzo posto corrispondeva a una cattedra a Reggio Emilia. Ogni mattina, partendo da Ferrara alle 5 andavo in macchina a prendere la corriera, con la quale arrivavo a Bologna in tempo per un caffè al volo prima di saltare sul treno che mi portava a Reggio per l’autobus delle 8. Al ritorno, grazie al buon cuore degli autisti del tram che mi tiravano su quando mi vedevano correre dietro l’autobus appena partito, potevo sperare di prendere un treno al volo per arrivare, verso le 16.30-17, a casa. Ferrovie permettendo, ovviamente. Del resto non era la prima volta che avevo orari di questo tipo: il precario va dove lo chiamano, e spesso i primi anni di ruolo sono anni di precariato di fatto. Soprattutto dal punto di vista del salario.

Ma almeno, dicevano, ero arrivato al termine del calvario: macché! Per un neo-assunto nella scuola, il primo anno è un anno di prova, al termine del quale c’è un esame. E se l’esame va male, l’immissione in ruolo decade. Lo so che Lei, ministro, ha detto (o lo ha detto il suo collega Brunetta?) che non si può accedere a un posto di lavoro così delicato solo per aver vinto un concorso, e ha istituito una commissione presieduta dal professor Israel, che si vanta di aver introdotto, tra gli studi e l’immissione in ruolo, l’anno di apprendistato.

Le do una notizia: l’anno di apprendistato esiste già.

Quanto alla frase sugli insegnanti che vanno in cattedra solo per aver vinto un concorso, non è originale: l’aveva già detta il presidente Cossiga a proposito di un giovane magistrato meridionale, Rosario Livatino (brutalmente ucciso qualche tempo dopo da due sicari della mafia).

Insomma, dopo un corso in cui hanno insegnato a un insegnante che faceva da anni l’insegnante a fare l’insegnante, ho dovuto sostenere un esame per dimostrare di essere (diventato?) un insegnante: una lezione davanti a una commissione presieduta dalla preside. La lezione che avevo scelto era sulla filosofia scolastica, e un’anziana collega che mi aveva valutato mi disse, in separata sede, che s’era commossa ad ascoltarmi. Qualche giorno dopo ho saputo che era sorella del cardinale Ruini.

(c) girolamo de michele, 2010 – by arrangement with agenzia letteraria roberto santachiara  – (c) minimum fax, 2010

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(dall’introduzione di “La scuola è di tutti“, minimum fax, 2010)