L’omino bianco, l’omino nero

Francesco Cossiga raccontato da Filippo Ceccarelli, su Repubblica

Sembra incredibile che non ci sia più Cossiga. E allora subito, sopraffatti dai ricordi, ci si sorprende a fare i conti con le controversie più radicali applicate alla necrologia: il massimo della verità consentita al potere e il massimo della diffidenza che quella stessa verità finisce per meritarsi al cospetto della morte.

Un paio d’anni orsono aveva dato conto del suo stato fisico offrendo la seguente valutazione contabile: «Ho subìto nove operazioni, di cui cinque gravi, una della durata di sette ore, seguita da sette giorni di terapia intensiva. Ma resisto». Preciso e spavaldo, aveva aggiunto nella lingua delle sue parti: «Pelle mala, no moridi, i cattivi non muoiono». Ecco, si era scritto da solo l’epitaffio: alla rovescia, come spesso gli capitava.

Per niente facile da raccontare «Franciscus Cossiga», come da ruffianissima lapide appostagli in onore sui muri del palazzone dei Beni Culturali quando era ancora un classico democristiano: «Uomo non di polso, ma di polsino», secondo Montanelli; poco prima cioè che fosse afferrato dalla voglia di diventare quello che non era mai stato e quindi prima di impugnare il piccone e di darci dentro, bùm-bùm, incurante della polvere e dei calcinacci della Prima Repubblica.

Enigma biografico quant’altri mai: signore all’antica, ma anche assai evoluto; arcaico e tecnologico, il padrenostro tradotto in gallurese dal nonno Bainzu e il telefonino di ultimissima generazione, altoborghese e pastorale a un tempo. «Vengo da una terra – diceva – dov’è amaro anche il miele». Un sardo inglese, Cossiga, uno statista sovversivo, un laico clericale, ingenuo e astutissimo, tragico e infantile, il custode dei segreti più oscuri della Repubblica e insieme la sua pretesa Bocca della Verità.

Giovane allievo di Antonio Segni, ondeggiò tra Taviani e Moro prima di manifestarsi provvisorio doroteo di complemento. Tale evanescenza correntizia, a mezza strada tra una vocazione notabilare e una specie di astuta autonomia, lo pose nelle migliori condizioni per una splendida ascesa, com´è ovvio pagata duramente.

Ministro dell’Interno, si può dire che non riuscì a salvare Moro, l’uomo che più di tutti aveva creduto in lui. Sui modi in cui ciò avvenne sono lecite le più terribili e dolorose congetture, in un arco che va dal colpo alla ragion di Stato. Per crudele paradosso, le pronte e inusitate dimissioni gli aprirono una ancora più rapida carriera. Ma giunto inopinatamente a Palazzo Chigi, all’inizio degli anni Ottanta, subito si trovò impelagato fra le ambizioni craxiane, gli ultimi misteriosi colpi del terrorismo (Ustica, Bologna), le trame di Gelli, la scelta degli euromissili.

Come succedeva nel mondo democristiano: più si faceva da parte, e più lo venivano a cercare. Ebbe così Palazzo Madama e quindi anche il Quirinale. Gli alleati d’oltreoceano lo apprezzavano; la Chiesa grosso modo pure; la grande finanza temeva più Andreotti; alle Botteghe Oscure sapevano che era imparentato con i Berlinguer.
E tuttavia, a un certo punto, queste mirabili pre-condizioni valsero nulla contro l’intima turbolenza che, a lungo repressa, cambiò la vita del personaggio. Fu lui stesso a teorizzare, privilegio raro, la propria lacerante duplicità, sentendo dentro di sé all’opera «l’omino bianco», disse, e «l’omino nero»: la più cupa depressione e l’indole istrionica, paralisi dei sentimenti e impulso giocherellone.

Lo si vide dunque con inusitate divise, peluche in braccio, incredibili copricapi, mostrine cucite sulla giacca, maglietta recante versi Rimbaud; una volta, per qualche mirata provocazione, si fece riprendere ai tavolini di un McDonald’s, hamburger in mano, maionese e ketchup sulle guance.

(continua a leggere l’articolo di Filippo Ceccarelli su Repubblica)