I Looney Tunes neri

Undici cartoni furono messi al bando negli anni Sessanta perché considerati razzisti (lo erano)

di Arianna Cavallo – @ariannacavallo

Carbone nero e i sette nani è uno dei Looney Tunes, quei brevi cartoni animati che avrete visto migliaia di volte in tv, tipo quelli con Bugs Bunny e Wile Coyote. Carbone nero è il nome della protagonista del cartone, che è considerato uno dei migliori corti mai realizzati dalla Warner Bros: in sette minuti racconta in modo parodico la storia di Biancaneve, in versione afroamericana e con colonna sonora jazz.

In realtà è normale che non ve lo ricordiate: probabilmente non lo avete mai visto. Il cartone animato, realizzato nel 1943, dal 1968 non è più andato in onda, e non è nemmeno stato diffuso in videocassetta o DVD. Questo perché Carbone nero e i sette nani è uno dei cosiddetti Censored Eleven: gli undici cartoni animati prodotti negli Stati Uniti e considerati talmente offensivi e razzisti nei confronti dei neri che la casa di produzione United Artist decise di ritirarli e non trasmetterli più. La censura dura tutt’ora e fino a qualche anno era stata aggirata soltanto grazie ad alcune videocassette pirata. Oggi tutti gli undici cartoni animati si trovano su Youtube.

I Censored Eleven non sono gli unici Looney Tunes ad avere personaggi e storie razziste o comunque allora considerate sconvenienti dall’opinione pubblica. In molti altri corti della Warner Bros degli anni Trenta e Quaranta figurano personaggi che invitano a consumare alcol e tabacco, o contengono scenette che ridicolizzano gli afroamericani e i giapponesi, nemici degli Stati Uniti durante la Seconda Guerra mondiale. Negli anni queste parti vennero poi tagliate, così da poter comunque mandare in onda i cartoni. I Censored Eleven sono i cartoni animati che non potevano essere salvati dal semplice taglio di una o due scene, essendo totalmente incentrati su tematiche razziste. I loro protagonisti sono tutti neri con grossi labbroni, che si esprimono in modo sgrammaticato e incarnano i peggiori stereotipi dell’America di quegli anni. I loro titoli sono robe tipo L’Isola di Pingo Pongo o Il bungalow dello zio Tom. Altre volte il titolo stesso era sgrammaticato: Carbone nero e i sette nani in inglese non era Coal Black and the Seven Dwarves bensì Coal Black and de Sebben Dwarfs.

Da qualche tempo la Warner Bros ha ricominciato a inserire in alcuni DVD la versione originale di alcuni dei Looney Tunes che erano stati ritoccati pur di essere mandati in onda, facendoli precedere da un’accurata spiegazione in cui si spiega che il contenuto del cartone non è condivisibile, ma viene presentato integralmente per motivi di fedeltà storica. Qualche passo avanti è stato fatto anche nei confronti dei Censored Eleven: lo scorso aprile un esperto di cinema afroamericano, Donald Bogle, ha proiettato in un teatro di Hollywood otto degli undici Looney Tunes censurati, restaurati per l’occasione.

Un articolo pubblicato pochi giorni fa su The Root, un giornale online che si occupa di cultura afroamericana, è ritornato sull’argomento chiedendo alla Warner Bros di lasciar perdere la censura una volta per tutte e rendere ufficialmente disponibili al grande pubblico i Censored Eleven. Secondo the Root, la messa al bando di questi cartoni poteva avere senso in passato, quando la raffigurazione razzista delle persone afroamericane era univoca e particolarmente diffusa nei film e nei programmi televisivi. Visto come la raffigurazione degli afro-americani nella cultura popolare ha fatto enormi passi avanti, mostrare preoccupazione o indignazione per cartoni animati che esprimono una visione ormai sorpassata sarebbe un segno di debolezza.

Liberare gli undici Looney Tunes neri sarebbe opportuno, prosegue The Root, anche perché alcuni di questi sono piccoli capolavori. Carbone nero e i sette nani ha dei disegni e una colonna sonora eccezionali. Il direttore del cartone, Bob Clampett, era un appassionato di musica jazz: l’idea di realizzare una musical in cartoni animati gli venne dopo aver ascoltato un musical di Duke Ellington. I movimenti dei personaggi riproducono scrupolosamente quelli dei ballerini nei club di Los Angeles, la musica che accompagna il cartone è suonata da jazzisti neri e la voce della principessa è quella della cantante Vivian Dandridge, sorella della più famosa Dorothy, la prima attrice afroamericana a essere nominata all’Oscar.

The Root suggerisce inoltre che il cartone non sia poi così estraneo alla cultura afroamericana contemporanea.

Vediamo un po’ com’è fatto questo Carbone nero. La ragazza è una belloccia color cioccolata con un sedere fantastico, mentre il principe azzurro ha i denti d’oro. L’intero cartone si svolge su una colonna sonora a base di jazz. Il sesso è nell’aria e persino i sette nani sono arrapati. La regina cattiva se la spassa strofinandosi con dei teppistelli e lo stesso fa la principessa, e la cosa è considerata molto divertente. Tutto questo non vi suona familiare? Sono tutte cose tipiche della cultura rap: il parlare in gergo, i gran fondoschiena, la violenza, persino i denti d’oro. Se Dr. Dre, Snoop Dogg e 50 cent sono considerati dei classici, perché non dovrebbero esserlo anche i Censored Eleven? Questi cartoni, a modo loro, sono parte della storia dello spettacolo afroamericano. È vero, sono stereotipati, ma anche il rap lo è.

Quello che segue è proprio Carbone nero e i sette nani, diretto da Robert Clampett nel 1943. Seguono tutti gli altri, se siete curiosi di vederli.

Coal Black and de Sebben Dwarfs -1942 di redhotjazz

Hittin’ the Trail for Hallelujah Land, diretto da Rudolf Ising nel 1931

Sunday Go to Meetin’ Time, diretto da Friz Freleng nel 1936

Clean Pastures, diretto da Friz Freleng nel 1937

Uncle Tom’s Bungalow, diretto da Tex Avery nel 1937

Jungle Jitters, diretto da Friz Freleng nel 1938

The Isle of Pingo Pongo, diretto da Tex Avery nel 1938

All This and Rabbit Stew, diretto da Tex Avery nel 1941

Tin Pan Alley Cats, diretto da Robert Clampett nel 1943

Angel Puss, diretto da Chuck Jones nel 1944

Angel Puss di looneytunes13

Goldilocks and the Jivin’ Bears, diretto da Friz Freleng nel 1944