Alla guerra dell’Expo

Gli errori del centrodestra milanese sono diventati terreno di battaglia politica, Repubblica attacca

Era il 31 marzo 2008. L’Ufficio Internazionale delle Esposizioni assegnava alla città di Milano l’organizzazione dell’Expo 2015, preferendo la sua candidatura a quella della città turca Smirne. Ci furono smodati festeggiamenti televisivi e congratulazioni bipartisan. Due anni e tre mesi dopo, la sensazione dell’osservatore medio è che si sia passato molto tempo a discutere – specie di cose collaterali, tipo il doppio stipendio di Lucio Stanca – e poco a preparare un progetto che da grande opportunità rischia di trasformarsi in autogol. L’eventuale fallimento riguarda tutto il paese e tutta Milano, ma è un fatto che in questa fase gli imbarazzi ricadano tutti principalmente sul centrodestra, la cui classe dirigente – locale e nazionale – sta gestendo l’Expo. Ed è un fatto che le opposizioni politiche e giornalistiche abbiano deciso di non fargliela passare liscia. Oggi Curzio Maltese su Repubblica fa un punto della situazione, misurando la distanza tra i proclami di “efficientismo meneghino” e la “figura da cioccolatai” che Milano starebbe rimediando.

Trenta mesi e un mare di soldi buttati via in guerre di poltrone. Tre amministratori delegati cambiati, prima l’inutile Paolo Glisenti messo dalla Moratti (il “Rasputin della Bovisa”, fu la memorabile definizione di Guido Rossi), poi il rovinoso Lucio Stanca voluto da Berlusconi e ora il city manager Giuseppe Sala, senza che Milano 2015 abbia realizzato e neppure cominciato una sola opera, non l’autostrada Pedemontana, non una delle due linee di metropolitana previste, non un albergo, un museo, una casetta del villaggio d’accoglienza, il centro stampa, la sede Rai. Non parliamo poi della moschea che la Lega insorge o delle leggendarie vie d’acqua o dei nuovi parchi nella città più inquinata d’Europa: miraggi. Nemmeno un accenno d’intervento pubblico si scorge a occhio nudo sull’area di un milione e passa di metri quadrati di Rho Pero destinata a ospitare i fantomatici, almeno oggi, “trenta milioni di visitatori”. Tranne i cartelli, ormai comici, con la scritta “Qui sorgerà Milano 2015”, che campeggiano sulla distesa di terreni agricoli intonsi.

Giusto per fare un esempio, resta ancora da sciogliere un nodo fondamentale: dove fare l’Expo? O meglio: l’area è stata già scelta, l’Expo si farà a Rho, nei nuovi padiglioni espositivi della fiera milanese. Ma c’è un problema relativo a proprietà e permessi, nonché a una serie di altre aree circostanti riguardo le quali i vari soggetti interessati da due anni non riescono a mettersi d’accordo.

Le aree sono ancora in mano dell’Ente Fiera e del gruppo Cabassi, in attesa che il Comune, la Regione, la Provincia, Assolombarda, la Camera di Commercio, il Ministero del Tesoro e il governo, insomma Moratti, Formigoni, Berlusconi, la Lega e la community business milanese riescano a trovare un dannato accordo, un giorno solo in cui diranno la stessa cosa, avanzeranno una proposta condivisa. Ne sono passati più di ottocento e quel giorno non è ancora arrivato. Una prova? L’altro ieri Letizia Moratti ha escogitato l’ennesima proposta per le aree dell’Expo, alla media di una al mese. Stavolta il sindaco propone di non acquistare le aree di Fiera-Cabassi, ma di ottenerle in comodato d’uso per sei anni, quindi di restituirle valorizzate ai proprietari una volta smontato l’ultimo stand. Sembra un’idea finalmente ragionevole, in tempi di crisi, ma a Formigoni non piace. Il governatore vuol comprare le aree a tutti i costi, per essere precisi al costo di 200-250 milioni, uno sproposito per un terreno agricolo. Ma in compenso un magnifico affare per gli amici ciellini dell’Ente Fiera.

Tra chi vuole comprare e chi vuole affittare, poi, c’è un terzo partito: quello di chi preferirebbe non fare nulla. È il punto di vista della Lega, che sembra non avere un rapporto facile con l’Expo. I più morbidi sul tema, come il ministro Calderoli, sostengono si debba organizzare l’Expo con le strutture fieristiche già esistenti. I più duri, i vertici del partito nel cosiddetto territorio, pensano che sia tutto un gigantesco spreco, e “sarebbe meglio lasciar perdere e concentrarsi a riparare le buche nelle strade”. Un punto di vista a cui, tra l’altro, lo stesso Maltese riconosce qualche legittimità, se è vero che

la Lega è stata l’unica forza politica a rilevare fin dal principio l’anomalia, unica della storia, di un Expo progettato su terreni privati e non pubblici. Con tutti i rischi connessi, in una città ormai in mano al conflitto d’interessi e a bande di affaristi che nella migliore delle ipotesi viaggiano sotto le sigle poco rassicuranti della Compagnie delle Opere e del gruppo Ligresti, e nella peggiore portano dritti ai clan della ‘ndrangheta.

C’è poi il discorso su Berlusconi, che di quella retorica dell'”efficientismo meneghino” è probabilmente il più grande apologeta. Maltese sostiene che “nessun presidente del consiglio si è così tanto disinteressato della capitale economica del Paese quanto Berlusconi”. E la cosa si spiegherebbe col fatto che il 2015 rappresenta per tutti, oggi, un orizzonte troppo distante: Berlusconi è convinto di non arrivarci, i suoi alleati – Moratti, Formigoni, la Lega, CL, eccetera – hanno come prima preoccupazione quella di arrivarci in vantaggio sugli altri e quindi si fanno la guerra tra loro. Il punto è che in gioco c’è una posta più alta della successione a Berlusconi, dice Maltese: il prestigio dell’Italia.

Perché quale altro prestigio rimane al Belpaese? La grande Milano rappresenta ancora un quarto del Pil, il quaranta per cento degli investimenti stranieri in Italia, la meta di un viaggio d’affari su due, la capitale nazionale della finanza e mondiale della moda, del design, della lirica. I milanesi certo ormai sanno che l’età dell’oro è alle spalle, che il Pil cittadino è in calo da dieci anni, la Fiera è in crisi, la moda perde colpi, Malpensa è un Vietnam del trasporto aereo, la Scala e il Piccolo boccheggiano sotto i tagli alla cultura, le opere pubbliche sono ferme da vent’anni. L’Expo doveva essere la svolta e invece rischia di proiettare nel mondo l’immagine di una capitale del declino italiano.