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  • Giovedì 17 giugno 2010

Due chiacchiere con un campione del mondo

Pasculli, l'argentino che giocava nel Lecce, segnò la rete decisiva agli ottavi di finale dei mondiali 1986

di Giuseppe Granieri

Essere campioni del mondo non si inflaziona nel corso del tempo: capita solo a ventitre persone ogni quattro anni. In tutta la storia del calcio, meno di quattrocento persone. Tra quelli viventi c’è l’argentino Pedro Pablo Pasculli, nato a Santa Fe nel 1960 e per sette anni giocatore del Lecce. Fu lui l’autore del gol decisivo in Argentina-Uruguay, ottavi di finale dei Mondiali 1986 vinti appunto dall’Argentina.

Pedro, dove sei?
Sono a Lecce, ma sono in partenza: starò via per un po’. Mi sono arrivate offerte da club professionistici del Nord e vado ad incontrare i dirigenti. Vedremo cosa succederà…

Che offerte sono?
Mi vogliono come allenatore: ma non solo in Italia. C’è qualcosa anche in Svizzera: andrò a vedere di cosa si tratta.

Come mai sei rimasto in Italia dopo aver smesso di giocare?
Ci sono tante ragioni. Ho trascorso sette anni a Lecce, dal 1985 al 1992. Poi, ho chiuso la carriera facendo un’esperienza in Giappone: Lecce, per me, rappresentava un punto strategico, geograficamente parlando. Se fossi rimasto in Argentina, sarebbe stato tutto un po’ più complicato.

E poi cos’altro?
Ho sposato una ragazza leccese e nel 1989 avevo anche fatto qualche investimento qui: quindi ho deciso di stabilirmi nel Salento.

Come sono questi mondiali, visti da campione del mondo?
Per quello che ho visto fino ad ora, mi è piaciuta la Germania. Bel gioco, squadra quadrata, giocatori davvero interessanti: ma siamo solo all’inizio.

E della tua Argentina cosa ci dici?
Ha un potenziale grandissimo: ma deve migliorare nella fluidità del gioco. Diego deve ancora lavorarci: ma non è semplice fare l’allenatore. Anche se sei stato uno dei più grandi giocatori di sempre, allenare non è così automatico come ingranare una marcia. Serve esperienza, pazienza e molta applicazione.

Quando è stata l’ultima volta che hai visto Maradona?
Un paio d’anni fa: è stato qui in Italia perché era invitato ad una manifestazione. Ci siamo visti, parlati, abbracciati. Però non è facile mantenere i rapporti: sono a tredici ore di volo dall’Argentina e, dopo tanti anni, si fa un po’ fatica a mantenere saldi i legami.

Come fu vincere i Mondiali?
Ho sempre pensato che, trascorsi un po’ di anni dalla vittoria, sarei stato capace di trovare le parole giuste per descrivere cosa si prova ad alzare quella Coppa: ma mi sbagliavo. Posso solo dire che è stato bello vincere, si prova una felicità ubriacante, ti senti pieno e appagato.

Negli ottavi di finale, Argentina-Uruguay, il tuo gol fu decisivo.
Sono cose che ti porti dietro per tutta la vita: come un tatuaggio impresso sulla pelle. Non potrò mai dimenticare gli sguardi, i volti, i gesti. E qualcosa di italiano c’era anche in quella finale: l’arbitro Agnolin.

Guardando all’oggi, e al tuo curriculum, si capisce che il tuo futuro sarà in panchina.
In effetti è così: ho allenato formazioni dilettantistiche qui nel Salento, ma ho anche girato il mondo per allenare: sono stato in Africa, a guidare la nazionale dell’Uganda, così come sono stato in Albania, alla Dinamo Tirana.

Hai anche diretto la Nazionale italiana di Beach Soccer.
E mi sono anche divertito molto.