Donne in pensione a 65 anni? Anche sì

Alessandra Bocchetti, femminista e di sinistra, è favorevole: non stiamo parlando solo di cinque anni di lavoro in più o in meno

Sulla tutela dalle discriminazioni si scontrano da sempre due pensieri: quello di chi propone di introdurre correttivi allo status quo discriminante e quello di chi ritiene che i correttivi – di fatto leggi emergenziali – di fatto sanciscano lo status quo e generino controindicazioni e persino controdiscriminazioni. Tra i fautori della seconda linea – apparentemente più sensata -ci sono spesso anche interessi di mantenimento delle discriminazioni. Un esempio di questione del genere storicamente dibattuta è quello delle tutele per i neri negli Stati Uniti andate sotto il nome di “affirmative action”, termine poi esteso ad altre politiche di questo genere (è stato chiamato anche “positive discrimination”, appunto). Un esempio più attuale e più familiare in italia è quello delle cosiddette “quote rosa” che stabiliscano dei minimi di posti riservati alle donne nelle liste elettorali o in altri ambiti pubblici e privati.

Questo dibattito non può non essere la base di partenza per la nuova discussione sull’innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni per le dipendenti pubbliche, richiesto all’Italia da una sentenza dell’Unione Europea e di cui si sta discutendo molto. Da una parte c’è chi trova assolutamente corretto non solo obbedire a una norma UE, ma soprattutto equiparare il trattamento tra maschi e femmine. Dall’altra chi sostiene che fino a che questa equiparazione non riguarderà i diritti e le opportunità non è giusto che insista sui doveri, aumentando così il gap di privilegi di fatto tra uomini e donne.

Ieri nel dibattito è intervenuta Alessandra Bocchetti, saggista e studiosa femminista di sinistra, con un articolo sull’Unità che sta facendo molto discutere – anche sul Post, sul blog di Marco Simoni – perché si appropria della prima opinione, controcorrente rispetto a molte posizioni di sinistra, e la rivendica.

Bene, benissimo la pensione delle donne all’età di 65 anni! Ecco cosa rispondo alle tante persone che in questi giorni chiedono un mio parere a proposito. No, non è un paradosso, né ironia, ma solo speranza. Infatti noi donne dovremo affrontare una vita che si fa sempre più impossibile e, chissà, forse necessità farà finalmente virtù. Questa è la mia speranza, lo confesso. Perché dovremo affrontare concretamente il vuoto pressoché assoluto di servizi, di strutture di sostegno. Dovremo fare i conti con una scuola che sta andando in rovina, con i tempi e i modi della politica spesso proibitivi per la nostra partecipazione. Dovremo fare i conti anche con l’organizzazione della città, i suoi tempi, i suoi orari, e con la progettazione delle case e dei nuovi quartieri dove vivere. Insomma proprio perché la vita si fa sempre più impossibile per noi, che siamo le donne che lavorano più ore giornaliere al mondo -così dicono le statistiche-, finalmente ci dovremo porre il problema del governo di questa società. Ecco perché sono contenta.

Secondo Bocchetti nel conflitto tra uomini e donne il femminismo italiano si è ritirato, pigramente, rispetto alle chances di protagonismo e governo delle cose pubbliche e del proprio ruolo. E le donne dovrebbero rifiutare vittimismi e tutele.

Per terminare la nostra rivoluzione non dobbiamo fare «le donne in politica» dobbiamo fare «la politica delle donne». Ma per questo ci vogliono tante donne in politica e tante donne fuori, per ripristinare quel circolo virtuoso appena intravisto negli anni ‘80 e subito sparito. Oggi ci sono tantissime donne forti, tante imprenditrici, giornaliste, direttore di quotidiani, avvocate, professioniste, scienziate, pubblicitarie, filosofe, registe tutte pronte a fare ciascuna la propria parte. Perché non dovremmo farcela? E chissà se la sinistra, la nostra sinistra che abbiamo dovuto sempre trascinare, quasi come un peso morto, alle grandi battaglie di civiltà come il divorzio, l’aborto, quella sinistra che ci ha tradito con la legge oscena della maternità assistita, questa volta capirà che una lotta per gli interessi delle donne è una lotta per una società migliore, più giusta, più equilibrata. Chissà se, una volta per tutte, capiranno che non servono politiche protettive per le donne, ma servono, come piace tanto dire, «cambiamenti strutturali».

Oggi è il Secolo a intervistare Bocchetti, che aggiunge:

Chiariamoci su di un punto. È un falso privilegio per le donne andare in pensione prima. Questo falso privilegio risponde alla vecchia logica che le vuole a casa, al servizio della famiglia. Il fatto che le donne lavorino per meno tempo perpetua l’immagine di una provvisorietà ed inessenzialità del loro impegno esterno. È un’idea che sta nella testa un po’ di tutti ed è dura da eliminare. Racconto un aneddoto: durante un pranzo, in occasione di un seminario, ho sentito dire ad un ex ministro che nella magistratura c’erano molte donne, perché è un lavoro che ben si concilia con la cura della famiglia. Stupore generale. Poi una signora disse: «Non sarà perché più donne che uomini vincono il concorso?». Di fatto si è sempre aiutato le donne con strumenti che piuttosto le allontanavano dal lavoro, come il part time o i congedi parentali. Mai nessuno, né di destra né di sinistra, ha veramente organizzato strutture di sostegno per la famiglia, dando per scontato il nostro lavoro.

E all’intervistatrice che le chiede dei commenti al suo articolo sull’Unità, Bocchetti racconta:

Voglio dirne uno solo che mi ha colpito il cuore, l’ho letto in rete. Dice: «Lavoro otto ore fuori casa, quando torno la sera trovo una famiglia di cinque persone. Non credo che arriverò a 65 anni».