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  • Mercoledì 19 maggio 2010

In Messico la guerra alla droga l’ha vinta la droga

Calderon l'ha messa come priorità, impiegando circa 50.000 soldati contro i cartelli della droga

All’inizio dell’anno scorso esplosero sui giornali internazionali le storie delle guerre di droga in Messico. Il mondo si rese conto che non c’era genericamente un problema droga, in Messico, come in altri paesi latinoamericani: era in corso un massacro, e una perdita totale di controllo del territorio dal parte della polizia. Poi si è cominciato a parlarne meno, e poi meno: come se le cose fossero migliorate. No.

In Messico sono diversi i cartelli che si contendono il controllo del mercato della droga, e le modalità non hanno quasi nulla a che fare con quelle delle mafie italiane. Da noi, operano il più possibile nel silenzio: omicidi e esplicite dimostrazioni di forza portano solo a una maggiore visibilità del problema, e di un conseguente aumento di forze e mezzi da parte delle autorità. In Messico, i narcotrafficanti hanno invece imboccato la strada opposta: acquisire potere con la paura, tramite rapimenti e omicidi, efferati e ben visibili. Giornalisti uccisi, cadaveri lasciati a decomporre in luoghi pubblici, esecuzioni uploadate su YouTube, aggressioni alla polizia, le istituzioni costrette in difesa.

Felipe Calderón è diventato presidente del Messico nel 2006, con il beneplacito degli Stati Uniti, assai interessati a ciò che avviene oltre il confine e intorno al confine. Solo dieci giorni dopo il suo insediamento firmò un decreto per il coinvolgimento di 6000 soldati dell’esercito nella guerra alla droga. Nei tre anni successivi — cioè fino al 2009 — 23.000 persone sono state uccise in episodi di violenza correlati alla droga. L’impiego dell’esercito non ha funzionato, nonostante ora conti tra i 45.000 e i 60.000 soldati impegnati.

Spesso sono gli stessi membri della polizia o dell’esercito a essere affiliati con i cartelli messicani, in un dare e avere che funziona anche tra la popolazione, che a volte si sente più al sicuro protetta dai cartelli che dal governo. Esiste un genere musicale, il narcocorrido, che narra le gesta dei signori della droga. E l’appoggio dei cittadini al presidente sta calando mese dopo mese.

Le violenze sono partite circa dieci anni fa, ma il Messico ha iniziato troppo tardi la battaglia contro la droga. Come scrive il Wall Street Journal a dirlo non sono solo esperti o politici: Ismael Zambada è uno più importanti signori della droga, e ha rilasciato un’intervista alla rivista Proceso discutendo del ruolo e dell’importanza dei cartelli: “Ormai i narcotrafficanti fanno parte della società”.

La scorsa settimana la guerra alla droga si è fatta più vicina a Calderón, quando è scomparso Diego Fernández, una delle figure di spicco del Partito d’Azione Nazionale di cui fa parte anche il presidente. Intorno alla sua automobile, ritrovata vuota, c’erano segni di violenza: l’ipotesi è che sia stato rapito, e che molto probabilmente sia stato rapito dai narcotrafficanti. In questo caso, sarebbe un avvertimento al presidente e alla sua politica militare.

I critici delle mosse di Calderón affermano che è inutile usare la forza contro i narcotrafficanti; il governo starebbe del tutto tralasciando operazioni di intelligence, che secondo loro sarebbero molto più efficaci. Altri, come Enrique Krauze, uno dei più importanti storici messicani, continuano invece ad appoggiare la politica del presidente.

E tra i supporter del presidente — il primo a mettere la guerra alla droga tra le priorità del governo — ci sono gli Stati Uniti, che guardano preoccupati lo svolgersi degli eventi, sia perché la droga che passa il confine e arriva sul suolo americano è ancora tantissima, sia perché temono una mancata rielezione di Calderón. Che, per quanto stia fallendo, è comunque in ottimi rapporti con la Casa Bianca.