Com’era Severino Cesari

È morto Severino Cesari, il più grande editor italiano degli ultimi cinquant’anni, probabilmente. Era malato da tanto tempo, ma ha continuato fino all’ultimo giorno a scrivere, trasformando la malattia nella sua ultima vita. La sua notorietà maggiore è legata all’invenzione e alla direzione di Stile libero, la collana di Einaudi fondata nel 1996 insieme a Paolo Repetti, che aveva conosciuto alla casa editrice Theoria all’inizio degli anni Novanta, quando Cesari dirigeva le pagine culturali del Manifesto. È stato l’editor grazie a cui hanno preso forma alcuni dei libri degli ultimi vent’anni: l’antologia Gioventù cannibale, Dei bambini non si sa niente di Simona Vinci, Almost blue di Lucarelli, Q di Luther Blissett, Io non ho paura di Ammaniti, Romanzo criminale di De Cataldo. Severino Cesari è stato tra i primi ad aver intuito la grande trasformazione che avveniva nella cultura italiana alla fine del Novecento, a comprendere il cedimento delle distinzioni tra basso e alto, pop e accademia, e a praticare questa intuizione con cura quotidiana, senza alcun compiacimento intellettuale, ma con identica curiosità, attenzione e rispetto, sia verso l’alto che verso il basso.

In pochi sapevano quanti anni avesse Severino Cesari, ogni tanto si giocava a indovinare, qualcuno sosteneva che fosse abbastanza giovane, altri che fosse vecchissimo, addirittura eterno, perché prima del cancro aveva i capelli lisci nerissimi e neppure il cancro gli aveva levato quel suo modo di muoversi e guardare che faceva venire in mente un prete umbro, un contadino etrusco, un sacerdote atzeco. Era misterioso, perché era moderno e antico. Nel suo corpo e nel modo di muoverlo si sentiva qualcosa di permanente, come un fondo duro e gentile, di terra. Tutti sapevano, invece, che era nato a Città di Castello. Anche il modo in cui parlava era strano: quando lo faceva in pubblico era pieno di incisi ed entusiasmi, accennava a cose che non sviluppava, avviluppava subordinate e coordinate fino a confondere il filo di tutti e a lasciare nell’aria soltanto l’emozione con cui aveva parlato; quando doveva dire qualcosa di pratico o essere duro, invece, era secco – soggetto, verbo e complemento, se il complemento era proprio necessario, altrimenti il verbo bastava; quando scriveva sms – lo ha fatto fino all’ultimo – mandava testi fluviali, editatissimi, affettuosi che ti costringevano a scrollare molte schermate per arrivare alla fine; ma era quando editava un testo che il suo stile si rivelava: taceva, prendeva tempo, poi incominciava a leggerti in faccia ad alta voce quello che avevi scritto e dopo due pagine, quando già ti stavi abituando al suono della sua voce e ti adagiavi nel compiacimento, diceva: “Qui perdi il lettore”, e prima che facessi in tempo a formulare una domanda, riprendeva la lettura fino a quando – dopo due, tre, quattro pagine di riflessioni a cui tu tenevi tantissimo – parlava di nuovo: “Qui lo riprendi”. L’editing di un testo in cui vedeva qualcosa non lo incominciava mai in casa editrice, ma in casa o più spesso in un bar. Aveva un’idea quasi mistica eppure laica della letteratura, che per lui coincideva con la “narratività”, con l’azione di raccontare qualcosa scrivendo.

Non che non amasse gli scrittori più concentrati sulla parola che sulla trama, ma per lui erano le storie a farsi scrivere, non gli scrittori a scriverle, e, quindi, quando si lavorava a un manoscritto, si trattava tutti quanti – scrittore ed editore – di prestarsi alla storia che proveniva da qualche luogo profondo che non aveva senso indagare e neppure provare a nominare. Ogni tanto, se stavi a lungo con lui e arrivava a fidarsi, aveva scatti improvvisi di felicità e si metteva a raccontare barzellette goliardiche che ti facevano ridere solo perché erano così stonate rispetto a quello che credevi lui fosse. Se rimanevi con Severino Cesari abbastanza a lungo, ogni parola sembrava circondata da nuvole di silenzio (ed è per questo che Paolo Sorrentino, nella Grande Bellezza, gli chiese di recitare nel ruolo del poeta muto Sebastiano Paf: «Perché non parla mai?» «Perché lui ascolta»).

Però era il suo corpo, il modo in cui stava nel mondo, la cosa che più colpiva di lui. Soprattutto le mani, che sembravano condurre una vita indipendente dal resto, specialmente quando toccavano un libro. Aveva le dita un po’ piatte, gentili, ma con le unghie non grandi e dei peli. Chi ha avuto il privilegio di vederlo toccare un manoscritto che aveva amato ed editato, per l’ultima volta, prima che partisse in stampa, sa che posava il blocco sul tavolo di vetro della sala riunioni della casa editrice, dopo averlo perfettamente ordinato in modo che neppure l’angolo di una pagina uscisse a disturbarne la verginità. Per un istante tirava indietro la schiena e guardava la carta, dimenticandosi di te, subito dopo alzava le mani e faceva un’altra piccola pausa, prima di incominciare a toccarlo, ad aprirlo, a separare i capitoli, mettendoli in fila uno di fianco all’altro da destra a sinistra, per poi fermarsi di nuovo a sfiorare le varie pile con gesti veloci, e appena era abbastanza, ricominciava, finiva di disporle, dopodiché si gelava, fermava le mani per respirare con le narici, guardava, e un attimo dopo le sue dita ricominciavano a volare sopra le pagine sfiorandole, apriva i capitoli, un attimo, e li richiudeva, li spostava, per sentire il ritmo del racconto per l’ultima volta prima di lasciarlo andare via, per sentire la scrittura e la narrazione che si trasformavano in peso, in spazio, in massa, in cosa.

Dopo, anche se non diventava un bestseller, diceva: «È un libro bellissimo». E se gli domandavi di un personaggio, poteva risponderti: «È l’aiutante magico di Propp», ma forse era lui.

Quando non ha più potuto toccare la carta, Severino Cesari ha cominciato a raccontare su Facebook la sua malattia. La chiamava «la Cura». Ha raccontato i tramonti romani, i fiori che sul terrazzo continuano a sbocciare, il vento, le passeggiate faticose, gli aghi nelle vene così distrutte che non si bucavano più, uno a uno i dottori e gli infermieri che aveva conosciuto a «Quantico», l’ospedale che  lo ha curato, le macchine, le mille medicine, Manuela, suo figlio, il fratello, raccogliendo intorno a sé sempre più ascolto e sempre più affetto. Se stava un po’ meglio rispondeva agli sms senza arrendersi alla loro brevità, ma continuando a usarli per raccontare qualcosa, come se fossero lettere.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.