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  • Giovedì 19 gennaio 2017

Trump e la bomba

Domani il nuovo presidente degli Stati Uniti riceverà i codici nucleari: la buona notizia è che nessuno li ha mai usati, quella cattiva è che se volesse farlo, potrebbe

(AP Photo/Carolyn Kaster)
(AP Photo/Carolyn Kaster)

Fra le moltissime cose che Donald Trump potrà fare una volta che si sarà insediato come presidente degli Stati Uniti, cosa che accadrà venerdì 20 gennaio, c’è anche la possibilità di disporre a suo piacimento dell’enorme forza militare del paese: il presidente americano è al contempo leader politico e commander-in-chief, cioè capo supremo dell’esercito. Fra i tanti timori legati alla personalità di Trump – che è noto da sempre per prendere decisioni impulsive e senza consultare pareri opposti, cosa di cui in passato si è anche vantato – c’è proprio quello che possa prendere decisioni militari affrettate, e dalle conseguenze potenzialmente devastanti. Il tema diventa ancora più delicato se si considera che gli Stati Uniti sono la prima potenza nucleare al mondo: fra le altre cose Trump avrà la possibilità di maneggiare i cosiddetti “codici nucleari”, cioè materialmente le informazioni che permettono al presidente di identificarsi con le massime cariche militari statunitensi e ordinare un attacco nucleare.

Da quando esiste lo stato americano, politici ed esperti di diritto hanno elaborato un delicato sistema di pesi e contrappesi per impedire che il presidente abbia la stessa autorità di un monarca assoluto: è per questo, ad esempio, che il suo operato è sottoposto al giudizio della Corte Suprema e persino del Congresso, che può superare il suo potere di veto con un voto a maggioranza di due terzi di ciascuna camera. Ecco, l’autorità militare del presidente degli Stati Uniti – e nello specifico, quella di utilizzare a piacimento l’arsenale nucleare del paese – non ha nessun contrappeso: Bruce Blair, ricercatore a Princeton ed esperto di sicurezza nazionale, in un lungo articolo pubblicato da Politico ha definito la presidenza americana come «qualcosa di simile a una monarchia, dal punto di vista nucleare».

Come funziona
Intorno alla procedura con cui un presidente autorizza un attacco nucleare sono nati diversi miti e aneddoti, e per motivi di sicurezza non tutto è chiarissimo. Secondo quello che si sa, in ogni posto che visita al di fuori della Casa Bianca il presidente americano è accompagnato da un funzionario che ha come compito quello di portare una valigetta – chiamata colloquialmente anche nuclear football – che contiene sicuramente il black book, cioè una lista di obbiettivi pronta all’uso per un eventuale attacco nucleare, e in qualche caso i codici veri e propri, che sono scritti su una carta di plastica grande più o meno come una carta di credito (chiamata anche “il biscotto”). Alle volte i presidenti scelgono di tenere la carta con sé e di non lasciarla dentro al nuclear football: cosa che può generare qualche incidente, come la volta in cui – si dice, ma chi lo sa – Jimmy Carter la lasciò in un vestito che poi mandò in lavanderia.

Il “biscotto” contiene un codice che – secondo Frank Gardner, un giornalista di BBC che si occupa di sicurezza – il presidente deve comunicare in caso di attacco, prima allo Stato maggiore riunito, cioè all’organo che comprende i capi di ciascuna delle forze armate, poi al comando operativo del Dipartimento della Difesa, quindi al Comando Strategico (USSTRATCOM), cioè il centro che materialmente sovrintende l’arsenale nucleare. Insieme al codice, il presidente deve comunicare anche l’obbiettivo dell’attacco: può sceglierlo fra quelli elencati nel black book – e secondo Blair sono di tre tipi: arsenale nucleare o di armi di distruzione di massa, strutture industriali di tipo militare oppure governative – oppure scegliersi un obbiettivo da sé. Al settembre del 2016, gli Stati Uniti avevano 1.367 bombe nucleari, a fronte di un migliaio di obbiettivi russi (cento dei quali solo a Mosca), quasi quattrocento obbiettivi cinesi e altri sparsi fra Corea del Nord, Siria e Iran. Fra l’ordine definitivo e la partenza dei missili non passerebbe molto tempo: sempre su Politico, Blair stima che per lanciare 850 bombe nucleari ci vorrebbero circa 15 minuti (i missili atterrerebbero probabilmente qualche minuto o decina di minuti dopo, a seconda della distanza dell’obbiettivo). L’ordine può essere ritirato solamente prima del lancio materiale dei missili, che non possono essere richiamati o disarmati in volo.

Se una mattina Trump si svegliasse con l’idea di colpire tutti gli obbiettivi cinesi indicati dall’intelligence e desse materialmente l’ordine, nessuno avrebbe l’autorità per fermarlo. Al massimo qualcuno – come il segretario della Difesa – potrebbe rifiutarsi di eseguirlo: secondo BBC, però, in quel caso il segretario della Difesa compirebbe un reato di tradimento, e il presidente potrebbe licenziarlo e passare l’ordine al vice-segretario. Il Washington Post spiega che il rifiuto di vari funzionari di eseguire un ordine del genere rallenterebbe certamente l’esecuzione dell’ordine, ma non la impedirebbe.

L’assenza di contrappesi nella gestione delle armi nucleari da parte del presidente ha una ragione storica, come ha spiegato di recente il Washington Post: sottrarre la decisione ultima di compiere un attacco del genere al personale militare, considerato più incline di quello civile a farne uso:

Quando venne costruito il contesto legale entro cui utilizzare le armi nucleari, i timori non riguardavano la presidenza ma i generali dal grilletto facile. L’Atomic Energy Act del 1946, che fu firmato dall’allora presidente Harry Truman dopo nove mesi di acceso dibattito al Congresso, poneva saldamente l’autorità di usare l’atomica nelle mani del presidente e della componente civile dell’esecutivo. Fu una legge importante e controversa, scritta nei mesi successivi agli attacchi atomici di Hiroshima e Nagasaki, e con un occhio rivolto al futuro conflitto con l’URSS.

I membri del Congresso che scrissero la legge, ampiamente appoggiati dagli scienziati del Manhattan Project [cioè quelli che avevano lavorato alla sviluppo della bomba], la costruirono attorno alla domanda di chi dovesse gestire l’arsenale atomico: usare una di queste armi è un gesto politico o militare? Se è intrinsecamente politico, e quindi un passo avanti rispetto alla tattica militare, allora non dovrebbe essere assegnato all’esercito. In ultima analisi, dare questo potere al presidente significava considerare lui stesso un contrappeso per la volontà del Dipartimento della Difesa di usare più spesso queste armi.

Per quel che ne sappiamo, nessuno dei presidenti americani è mai arrivato anche solo vicino a prendere una decisione del genere (tranne Truman, che ordinò l’attacco sul Giappone, e Jimmy Carter, che nel 1979 a causa di un equivoco per poco non fu avvertito per errore che l’URSS aveva lanciato un attacco nucleare di larga scala contro gli Stati Uniti). La situazione si è ulteriormente tranquillizzata negli ultimi anni, anche grazie al successo della campagna globale per il progressivo smantellamento dell’arsenale nucleare mondiale. Nel documento di aggiornamento della prassi per gestire l’arsenale nucleare, Barack Obama ha persino considerato di eliminare la possibilità di usare per primi queste armi in caso di guerra: il ragionamento che ci sta dietro è considerarle solamente un deterrente per scoraggiare un attacco nucleare da parte dei propri avversari, piuttosto che un’arma da tenere in considerazione. Alla fine, però, Blair racconta che “un importanze funzionario del consiglio di sicurezza nazionale” lo convinse a preservare questa opzione, nel caso gli Stati Uniti dovessero trovarsi nell’ipotetica situazione di poter impedire un attacco terroristico globale con armi biologiche.

E Trump?
Sia durante la campagna elettorale sia durante il suo periodo da presidente eletto, Trump ha fatto delle dichiarazioni piuttosto contraddittorie sulle armi nucleari. Nel dicembre 2015 disse che «il problema più grave al mondo è la proliferazione delle armi nucleari», mentre in un’altra occasione spiegò che non sarà un presidente dal grilletto facile, «come qualcuno potrebbe pensare». Altre volte invece è sembrato piuttosto minaccioso: in marzo ha suggerito che non sarebbe poi così male se il Giappone sviluppasse un arsenale atomico per difendersi dalla Corea del Nord, mentre il 22 dicembre 2016 ha twittato che «Gli Stati Uniti devono rinforzare e ampliare il proprio potenziale nucleare finché il mondo non rinsavisce riguardo le testate nucleari».

Un filmato che mette insieme le contraddittorie dichiarazioni di Trump sulle armi nucleari

In altre parole, come per molte altre cose, non abbiamo idea di come Trump si comporterà con l’arsenale nucleare una volta insediatosi come presidente. Probabilmente Trump non riceverà nemmeno grande assistenza dal suo futuro segretario dell’Energia, cioè del membro dell’amministrazione che si occupa quasi solamente di mantenere l’arsenale nucleare del paese.

Gli ultimi due segretari dell’Energia, sotto l’amministrazione Obama, sono stati due scienziati: il premio Nobel per la fisica Steven Chu e il fisico nucleare dell’M.I.T. Ernest J. Moniz. Il segretario dell’Energia di Trump sarà l’ex governatore Repubblicano Rick Perry, famoso a livello nazionale soprattutto perché nel 2011, durante un dibattito delle primarie Repubblicane, propose di eliminare tre dipartimenti governativi che secondo lui erano inutili: quello per il Commercio, per l’Educazione e un terzo di cui non si ricordò il nome, fra l’imbarazzo generale e grandi risate del pubblico. Perry disse poi che il terzo dipartimento inutile era quello dell’Energia, proprio quello che presiederà fra poche settimane (e che fino a poco tempo fa era convinto si occupasse di industria energetica, come scritto in un recente articolo dal New York Times).